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La guerra sta finendo e l’Europa deve fare attenzione: il conto arriverà più tardi

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È più facile iniziare una guerra che finirla. Nonostante un immane sforzo mediatico, supportato dai maggiori opinionisti di entrambe le sponde atlantiche, i comuni cittadini europei hanno capito pochissimo delle ragioni per cui l’Europa occidentale sia entrata in guerra contro la Russia. Ancor meno perché la stiamo perdendo.

Soprattutto, gli europei hanno commesso il grande errore di quasi tutti gli analisti e gli esperti in materia, quello di considerare la guerra come un episodio di politica estera, quando si tratta di un atto di politica interna. Senza contare che, in guerra, la prima vittima è la verità. Nota bene: in corsivo, sono tutte frasi fatte.

Alla fine della storia, gli americani hanno sempre lasciato in braghe di tela gli alleati del paese che avevano sconquassato, in modo diretto o indiretto. Vietnam (1955-1975), Baia dei Porci (1961), Libano (1982-1984), Somalia (1992-1994), Afghanistan (2001-2021), Iraq (2003-2011) avrebbero dovuto insegnare qualcosa a valvassori e valvassini. Nel dopoguerra ci fu una sola, parziale eccezione: il conflitto coreano che Dwight Eisenhower, già Generale in capo e allora Presidente degli Stati Uniti, chiuse con l’armistizio del luglio 1953. In campagna elettorale aveva promesso di porre fine alla guerra e, poco dopo l’elezione, era andato in Corea di persona per valutare la situazione.

“Ogni arma che viene fatta, ogni nave da guerra che viene varata, ogni razzo che viene lanciato significa, a conti fatti, un furto commesso ai danni di coloro che hanno fame e non vengono nutriti. E di quelli che hanno freddo ma sono senza vestiti”. Così Eisenhower iniziò una nuova era di speranza con il famoso discorso sulla Opportunità della pace del 1953. “Con il costo di un bombardiere pesante si costruiscono almeno 30 moderne scuole. O due centrali elettriche, capaci di servire città di 60mila abitanti”. Altri tempi. Oggi un Northrop Grumman B-2 Spirit, un invisibile bombardiere strategico, costa 30 dollari al grammo. Più di due miliardi di dollari a pezzo. Hai voglia a costruirne, di scuole e di centrali elettriche.

La guerra sta finendo, lo sai che non mi va, canta invece sommessamente l’Europa in piena crisi di vassallaggio, a traino del verso memorabile dei Righeira. Con l’espansione a oriente, l’Unione Europea aveva scelto l’amicizia verso la Russia. Una opzione necessaria e implicita dal punto di vista geografico, utile e molto esplicita sotto quello economico e, perfino, culturale. Una su tutte: il gas russo a buon mercato pompava l’economia europea, fragilissima di fronte alla innovazione dei mercati e altrimenti inerme nei confronti della mitigazione dei cambiamenti climatici.

Assistendo alla chiusura dei gasdotti, con le buone o le cattive, l’Europa silente ha dimostrato che può, al massimo, svolgere un ruolo di valvassore di uno tre imperi totalitari in un profetico ritorno futuro alla George Orwell. E se l’Ue si sfalda, il valvassore delle Americhe sarà comunque e sempre la Gran Bretagna, mentre quasi tutti gli staterelli europei avranno in sorte il ruolo di valvassino, a scelta di una delle tre potenze in perenne conflitto tra loro.

La guerra ucraina è stata coltivata per un ventennio. Nel 2004, in tema di accerchiamento militare del suo paese, Putin lamentò che gli occidentali “dicono che non abbiamo nulla da temere, perché (le basi) serviranno alla difesa contro eventuali missili dell’Iran e della Corea del Nord. Ma noi sappiamo che questa minaccia oggi non c’è. Mentre quei missili, e i loro radar, copriranno tutto il nostro territorio, fino agli Urali. E quando noi chiediamo garanzie che non saranno usati per indebolire il nostro potenziale strategico, loro non ce le vogliono dare”.

Erano i bei tempi andati del generale Powell, allora Segretario di Stato alla politica estera, che aveva brandito in faccia al Consiglio di sicurezza dell’Onu una fialetta “con qualche polverina dentro”, inconfutabile prova che l’Iraq disponesse di armi di distruzione di massa. “Ma poi si scoprì – esclamò Putin sempre del 2004 – che le armi di distruzione di massa in Iraq non c’erano affatto”. O forse non c’erano più, in quanto vent’anni prima gli Stati Uniti, beninteso assieme alla Urss, avevano fornito all’Iraq l’arsenale con cui combattere contro l’Iran (Prima guerra del golfo, 1980-1988).

Il modo più veloce per porre fine a una guerra è perderla. E l’America sta facendo il miracolo di farla perdere solo all’Europa, i cui governanti si sono imbarcati nell’avventura a cuor leggero, da guerrieri sconfitti in partenza: i guerrieri vittoriosi prima vincono e poi vanno in guerra, mentre i guerrieri sconfitti prima vanno in guerra e poi cercano di vincere. I nostri eroi farneticavano di un conflitto breve e risolutivo capace di dissolvere in un attimo la Federazione Russa. Tentar non nuoce, avranno forse pensato: mica finirà sempre come capitò ai sultani ottomani, Napoleone e Hitler. In fondo, nel 1856, la Crimea aveva portato bene all’ammucchiata di Napoleone III e Cavour, Alì e Regina Vittoria, nomen omen.

Nel fare fronte alla probabile sconfitta che le ricadrà sulle spalle, l’Europa dovrà invece fare molta attenzione, perché le guerre non si pagano in tempo di guerra, ma il conto arriva più tardi. La vera sconfitta, però, è la democrazia rappresentativa, almeno europea ma non solo. Una sconfitta forse poco sanabile, se pensavi solo ai soldi: non basta l’acquolina in bocca davanti alle ricostruzioni post-belliche e al riarmo a sanare la ferita.

Giacché capisco poco di guerra e pace, tampoco di economia, quasi nulla di sistemi di governo, ho iniziato a parlarne con l’Intelligenza Artificiale nelle sue diverse vulgate: una montagna di ovvietà naturalmente, qualche falsità o mezze verità, ma anche intuizioni sorprendenti. Per ora, sono in debito con Gabriel Garcia Marquez, Simone Weil, Eschilo, George Orwell, Sun Tzu, Benjamin Franklin e Mahmood.

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