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Trump e Putin con il loro ‘patto tra autocrati’ si spartiscono il futuro del pianeta

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Dicono che Donald Trump voglia la pace in Ucraina. Che sia il grande pacificatore. Che basterà una sua stretta di mano con Putin per risolvere il conflitto. La verità è che l’ex (e ora nuovo) inquilino della Casa Bianca non ha mai fatto la guerra a Mosca perché con Mosca è sempre stato in affari. Altro che diplomatico: Trump è il cavallo di Troia perfetto del Cremlino a Washington, il miglior investimento della Russia nel cuore dell’Impero americano. Tom Clancy l’avrebbe definito l’asset n.1.

Donald si presenta come il leader forte che riporterà l’America alla grandezza, ma dietro la sua retorica ipernazionalista si cela una realtà ben diversa: un presidente compromesso, finanziariamente e politicamente, con Vladimir Putin e la rete di oligarchi russi che lo hanno sostenuto e, in più di un’occasione, salvato dal disastro economico.

La narrazione della “pace in Ucraina” che Trump sta tentando di accreditare non è altro che il prolungamento di un asse strategico con il Cremlino, con un obiettivo chiaro: ridefinire l’ordine globale secondo gli interessi di Mosca e, per estensione, di Pechino. Questa realtà cozza con un principio da sempre invalicabile per i repubblicani del Congresso: la Russia resta il nemico storico degli Stati Uniti, oggi più che mai.

La Russian Connection di Trump non è un’invenzione giornalistica né una teoria cospirazionista: è un’intricata rete di legami finanziari e personali, documentata con prove concrete. Negli anni in cui le sue attività immobiliari e i suoi casinò di Atlantic City finivano ripetutamente in bancarotta (per ben sei volte), nessuno gli prestava soldi, le grandi banche americane chiudevano i rubinetti, ma non quelle russe e kazake. Trump fu salvato finanziariamente dal mondo ex sovietico.

Un documentario investigativo olandese, The Dubious Friends of Donald Trump, ha ricostruito con precisione le operazioni attraverso cui capitali provenienti dall’ex blocco dell’Urss venivano riciclati nelle proprietà di Trump, tra cui il Trump SoHo Hotel, costruito con fondi di Bayrock LLC, società legata a oligarchi russi e kazaki. Tra i nomi coinvolti spicca quello di Felix Sater, un noto mafioso russo, condannato due volte per riciclaggio e frode, con accesso diretto a Trump e alla sua famiglia.

La questione va ben oltre il business. Il progetto mai realizzato della Trump Tower a Mosca è un esempio lampante: mentre il candidato Trump (nella prima campagna elettorale) giurava pubblicamente di non avere alcun interesse economico in Russia, i suoi emissari negoziavano con alti funzionari del Cremlino, con la promessa che Putin stesso avrebbe concesso a Trump un intero piano dell’edificio.

Questi legami spiegano il comportamento remissivo di Trump nei confronti della Federazione Russa, al punto da suscitare il sospetto che Putin possa esercitare un vero e proprio potere di ricatto. Lo Zar ha in mano Trump, è molto più scaltro politicamente e anche molto più ricco, visto che alcuni report gli attribuiscono un patrimonio di 200 miliardi di dollari. Ha anche più testate nucleari.

Tutta questa storia avrebbe rischiato di venire a galla nel 2017, quando il direttore dell’FBI, James Comey, iniziò a scavare nei rapporti tra la campagna elettorale di Trump e la Russia. Pessima idea. Nel giro di poche settimane, Comey venne silurato senza tanti complimenti, in quello che è stato uno dei più sfacciati atti di ostruzione alla giustizia della storia americana. Oggi, con il suo ritorno alla Casa Bianca, Trump ha già messo i suoi fedelissimi ai vertici di FBI, CIA e Dipartimento di Giustizia. Il messaggio è chiaro: tutte le indagini sul suo conto devono essere affossate. L’obiettivo non è solo blindare il potere, ma anche vendicarsi di chi ha osato mettergli i bastoni tra le ruote in passato.

Il risultato di tutto questo? Il nuovo ordine mondiale prende forma. Trump e Putin con il loro ‘patto tra autocrati’ si spartiscono il futuro del pianeta, mentre l’Europa guarda, senz’anima, paralizzata da una patologia burocratica all’ultimo stadio e dalla mancanza di leadership. Altro che alleato strategico: per Trump, il Vecchio Continente è solo un limone da spremere, o da schiacciare, e dei 27 Stati solo con qualcuno si può trattare direttamente (tra questi, sicuri ci sia l’Italia di Meloni?).

Quel che sta per accadere sul fronte ucraino è evidente: basta fondi a Kiev, fuori Zelensky, più concessioni alla Russia. Una politica che destabilizza gli equilibri europei e segna una frattura profonda tra il trumpismo e l’atlantismo di maniera. La Nato va ridimensionata e l’Europa deve saper difendersi da sola. L’Ucraina può anche tornare alla Russia, a meno che non paghi dazio a Washington con 300 miliardi in materie prime e terre rare. Al massacro di decine di migliaia di uomini potevano pensarci prima.

Peccato che l’America sia ancora una democrazia, anche se non sappiamo per quanto. Esiste un Congresso. E se c’è un punto su cui il Partito Repubblicano è sempre stato inflessibile è il ruolo della Russia come minaccia per gli Stati Uniti. Dai tempi della Guerra Fredda, la dottrina neocon ha sempre inquadrato Mosca come un avversario strategico, indipendentemente dalla sua ideologia politica.

Nel primo mandato di Trump, questa frattura interna era evidente: il Congresso, anche a maggioranza repubblicana, ha imposto sanzioni contro la Russia, ostacolato i tentativi di normalizzazione dei rapporti con Putin e persino avviato indagini sul Russiagate. Lo stesso Segretario alla Difesa di Trump, James “Mad Dog” Mattis, non ha mai nascosto la propria diffidenza verso la politica del presidente nei confronti del Cremlino. E infatti fu costretto alle dimissioni.

Oggi la situazione è ancora più tesa. Nel suo primo mese alla Casa Bianca, il presidente ha fatto piazza pulita del Deep State annidato nei corridoi del Dipartimento di Stato, Cia, Fbi e nelle 18 agenzie dell’intelligence, ma è anche vero che al Congresso i repubblicani sono lacerati: seguire il proprio leader, chiudendo un occhio su una possibile subordinazione agli interessi russi, o difendere la storica linea dura contro Mosca, rischiando uno scontro interno che potrebbe spaccare il partito. Alle elezioni di Midterm mancano solo 20 mesi e il pendolo notoriamente oscilla, oggi i repubblicani alla Camera hanno la più piccola maggioranza dal 1931: 219 seggi sui 218 richiesti. Trump è meno Re e imperatore di quel che sembra.

La tesi dei pessimisti è che la Russian Connection non è solo un’anomalia politica, ma una minaccia concreta alla sicurezza nazionale americana e agli equilibri mondiali. L’uomo che si proclama difensore dell’America è in realtà il presidente più compromesso con una potenza straniera ostile nella storia degli Stati Uniti. Se il Congresso repubblicano cederà alle pressioni del trumpismo, la politica estera americana subirà una svolta irreversibile, lasciando campo libero a Mosca e aprendo la strada a un nuova Troika autocratica globale di padroni del mondo: Putin, Trump e Xi Jinping.

La tesi degli ottimisti si fonda invece sulla constatazione che le aperture di Trump hanno riavvicinato Stati Uniti e Russia, creando opportunità di cooperazione per risolvere il conflitto in Ucraina. Le trattative tra Donald e Vladimir (affari e arricchimenti personali a parte) potrebbero addirittura segnare l’inizio di una nuova era per l’ordine internazionale, con un accordo globale di non belligeranza che comprenda anche la Cina, alleata di Putin e vero nemico sistemico dell’America. Siete tra i pessimisti, tra gli ottimisti o tra gli ibridi?

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