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“La mia testimonianza un grido di libertà. Per svegliare le coscienze ancora assopite”. La storia di Nino De Masi, l’imprenditore sopravvissuto alla ‘ndrangheta

Antonino De Masi, un imprenditore calabrese, racconta in "Inferi. La storia vera di un sopravvissuto alla 'ndrangheta" la sua vita sotto scorta da 12 anni dopo aver denunciato i boss della 'ndrangheta

di F. Q.
“La mia testimonianza un grido di libertà. Per svegliare le coscienze ancora assopite”. La storia di Nino De Masi, l’imprenditore sopravvissuto alla ‘ndrangheta

Vive sotto scorta da dodici anni. Non è un magistrato, né un uomo delle forze dell’ordine, né tantomeno un pentito. Lui si chiama Antonino De Masi, ed è un imprenditore calabrese di Rizziconi, nella Piana di Gioia Tauro (Reggio Calabria). La ‘ndrangheta della Piana, noto crocevia di traffici internazionali e luogo “strategico” per la criminalità organizzata, gliel’ha giurata. Perché De Masi – Nino per tutti quelli che lo conoscono e sostengono la sua battaglia – con le sue denunce contro gli estortori ha fatto condannare in via definitiva molti potentissimi boss. Per questa prova di coraggio, la vita di Antonino da molti anni a questa parte è diventata un inferno in terra, come dice il titolo del libro in uscita per Aliberti Editore dedicato alla sua storia.

Scritto da De Masi insieme al giornalista Pietro Comito – già premio “Agenda Rossa” per i giornalisti minacciati dalla ’ndrangheta – Inferi. La storia vera di un sopravvissuto alla ‘ndrangheta (con prefazione di Antonio Nicaso e un contributo di don Luigi Ciotti) racconta a cuore aperto la quotidianità di questo calabrese “vero”, come Nino ama definirsi contrapponendosi ai criminali che infangano il nome della sua terra. Protezione strettissima h24, residenza in un luogo segreto. Una vita da assaporare nonostante tutto, giorno per giorno, tra la paura e la speranza. “La mia testimonianza non vuole essere un lamento”, dice Nino, “ma un grido di libertà. Per svegliare le coscienze ancora assopite, per riprenderci il gusto della vita, da uomini e donne liberi”.

Per gentile concessione dell’editore, in esclusiva per Il Fatto Quotidiano, pubblichiamo il contributo di don Luigi Ciotti e un estratto:

Antonino De Masi intitola il suo racconto Inferi per dirci quanto sia terribile vivere sotto minaccia della violenza criminale: ostacolato nel proprio lavoro, colpito nei propri beni e con la paura costante per l’incolumità propria e dei propri cari. Ma il vero inferno, per una persona integra come è lui, sarebbe stato fare la scelta opposta. Cioè sottostare ai ricatti della ’ndrangheta per vivere un’esistenza a testa china, sottomessa ai canoni dell’obbedienza mafiosa.
Da uomo di grande spessore morale, Antonino ha preferito denunciare e affrontare il pericolo di ritorsioni da parte dei boss, piuttosto che il rischio di non poter più guardare serenamente negli occhi i suoi figli. O di vedere riflessa nello specchio, la mattina, la faccia di qualcuno che non era più lui.
“Perdere la propria vita” non significa per forza morire. Si perde la propria vita anche rinunciando a viverla secondo quei princìpi che fanno di noi degli esseri umani: libertà, dignità e giustizia. C’è chi è pronto a metterli da parte per poco: qualche privilegio e una garanzia di successo negli affari. Altri, come Antonino De Masi, sono invece disposti a difendere quei valori anche a costo di perdere un benessere faticosamente e meritoriamente costruito.
La sua non è solo la storia di un imprenditore onesto, che ha scelto di opporsi alle richieste mafiose per non sporcare il nome della sua azienda né tradire un territorio già fortemente compromesso a causa dell’ingordigia dei clan. È anche una storia di onestà intellettuale e morale. Di fedeltà al Vangelo come alla Costituzione, nel loro invito concorde a mettere sempre il bene comune davanti al tornaconto personale.
Antonino non si racconta per vantarsi, o vittimizzarsi, o raccogliere applausi da chi aspetta sempre che siano gli altri a mettersi in gioco. Lui lo fa per richiamare tutti noi alle nostre responsabilità. Perché finché sono in pochi ad agire come lui ha fatto, la ’ndrangheta e le altre mafie continueranno ad avere gioco facile nel condizionare i circuiti economici e di potere, oltre che nel rovinare la vita di chi osa ostacolarle. Ma se in tanti, incoraggiati dal suo esempio, sapranno ribellarsi e fare fronte comune contro i soprusi criminali, allora potremo sperare di avere una Calabria e un’Italia più forti e mafie sempre più deboli.
Grazie Antonino, per la tua schiena dritta e la tua voglia di condividere un percorso così faticoso ma del quale, sono certo, non ti sei mai pentito.

***
Il settimo cerchio dell’Inferno era questo, il feudo del Minotauro, nel quale la morte più crudele aspetta sull’uscio di casa, collegata alla batteria dell’auto, al pulsante di un detonatore o la senti aleggiare sulla carne della tua carne. E io nel settimo cerchio ci vivevo, con le mie aziende, la mia casa, soprattutto con la mia famiglia.
Avevo paura, sì, e ne avevo sacrosanto diritto, esattamente come sosteneva Paolo Borsellino. Sentivo però anche il dovere di avere coraggio, perché Borsellino diceva pure questo.
È però un dovere difficile da assolvere, quello del coraggio, mentre assumi una stringente consapevolezza che va oltre il timore di un rischio e sfocia nella certezza di conseguenze nefaste. Potevano crivellarmi sotto una pioggia di fuoco e piombo, se fossero stati clementi, o invece farmi a pezzi con una bomba allocata proditoriamente sotto la scocca dell’auto o ammazzare mio figlio. Potevano farlo, lo avevano già fatto ad altri. Impunemente.
Fino ad allora ero stato davvero un sopravvissuto, un miracolato. E prima di me lo era stato mio padre. Il Minotauro spesso si recava da lui o ci mandava qualcuno. A prendere pezzi di ricambio, a riparare mezzi agricoli o a prenderne di nuovi. Fatturavamo tutto, lasciando traccia. Volevamo essere pagati, ma loro versavano un anticipo irrisorio e sparivano. A volte neppure quello, perché prendevano e basta. Accadeva di continuo.
Noi eravamo ormai passati dalla dimensione artigianale a quella industriale, esportavamo mezzi e know-how in tutto il mondo e dovevamo subire ancora le angherie di un capomafia spietato, che il pizzo neppure lo chiedeva, perché non ne aveva bisogno, perché lo imponeva e basta. Mio padre, dopo decenni a combattere, a rispondere colpo dopo colpo all’arroganza della malavita, a crescere nutrendosi di bocconi amari, era davvero stanco.
Preso dalle nuove aziende e dalla battaglia contro le banche, però quasi non mi accorgevo di quanto lo fosse e di cosa stesse accadendo. Ormai era un uomo con più di settant’anni che, malgrado la sua tempra tenace, era provato dalle fatiche di una esistenza in cui conquistò ogni cosa col sudore della fronte.
Quando, nonostante la lunga pena da scontare, il Minotauro venne sorprendentemente scarcerato, la speranza che l’incubo potesse prima o poi finire fu annichilita. Era questa la giustizia? Era questo il segnale che la legge dava alla comunità? Alla gente che si spaccava la schiena onestamente per un tozzo di pane? Agli imprenditori che come noi provavano a resistere alla violenza e alla compromissione? Era desolante.
Malgrado lo sfinimento fisico ed emotivo, papà un giorno s’armò della pazienza e del coraggio rimastigli, facendosi accompagnare da un dipendente a casa del Minotauro, per richiedere un saldo del credito che aveva accumulato, per un totale di circa centottantamila euro. Non solo erano tanti soldi, ma voleva dargli un segnale, nell’auspicio che potesse bastare quantomeno a fermare quel prelievo forzoso.
Il boss andò su tutte le furie e prese mio padre per il collo, scaraventandolo per terra, inveendo contro di lui, sostenendo che gli aveva mancato di rispetto. Papà, secondo lui, doveva invece essergli grato perché, almeno così disse, fu solo grazie a un suo intervento, giammai richiesto, che noi De Masi, negli anni Novanta, eravamo stati risparmiati dall’Anonima sequestri. In pratica, tutto quel che prendeva dalla nostra azienda gli sarebbe stato dovuto, a suo dire. Un altro sgarro, dunque, e lo avrebbe fatto ammazzare.

Papà tornò da noi stremato, sconfitto, senza quasi profferire verbo. Sembrava un vecchio leone, ferito, sfinito, che non aveva più la forza né la volontà di combattere. Gli eventi successivi, iniziando dall’autobomba che smembrò quel povero Cristo di Nino, lo avrebbero ulteriormente turbato.
Il Minotauro continuò a mandare i suoi scagnozzi a prelevare pezzi e mezzi: era il costo che impose per una protezione né richiesta, né voluta. Continuammo a fatturare, per avere comunque una prova di quel che stava accadendo, ma stavolta papà non voleva denunciare, avvilito e preoccupato per le conseguenze a cui inevitabilmente avrebbe esposto i suoi figli, tutti, i suoi nipoti, le aziende e le sue centinaia di dipendenti.
Io lo spingevo, provavo a spronarlo, ma stavolta lo capivo. Lì ammazzavano senza pena e con sadica ferocia, scatenando ignobili vendette trasversali, mentre in arresto non ci finivano i carnefici, ma le vittime, com’era successo a Pasquale. Ti ammazzavano i figli se ti opponevi allo strapotere della ’ndrangheta. Sì, te li ammazzavano, e gli assassini restavano impuniti e a piede libero.

Avevo paura anch’io, certo che ne avevo. Una paura di quelle che ti paralizzava le gambe, ti rivoltava le viscere, ti portava via il respiro, ti privava del sonno, che rendeva difficili anche le più banali azioni quotidiane, figurarsi quanto rendesse complicato pensare al futuro, realizzare i sogni di una vita.
Malgrado ciò, spronavo papà: «Denunciamo! Facciamolo insieme!»
Fu l’ora più buia. In quelle tenebre dovevo cercare l’uomo che mio padre era stato e che doveva essere ancora, l’uomo che aveva subìto tanti di quegli attentati senza mai chinare la testa, senza mai arrendersi, alla violenza, all’ingiustizia, alla paura della morte. Quando ero un ragazzo, era lui a fare scudo col suo corpo e le sue scelte e a proteggere la nostra famiglia nell’impari scontro con un male senza regole né scrupoli. Divenuto ormai adulto, quel compito spettava a me.
L’avrei fatto io il primo passo, stavolta. Le avrei denunciate io le angherie subite da mio padre e dalle nostre aziende. Avrei raccontato tutto alla magistratura e alle forze di polizia. Avrei esibito tutte le prove che nel tempo avevo raccolto. Avrei messo a verbale ogni abuso, ogni prevaricazione.
Varcai la porta, l’androne, salii per le scale della Questura. A ogni passo, un’ombra mi accompagnava: le nostre case bruciate, le bombe, la mano sinistra al volante e la destra a impugnare la pistola, io, papà e mio fratello armati di fucile a far da guardia all’azienda, il tronco dilaniato di Nino, le lacrime di Pasquale nel buio di una fredda cella, il corpo del povero Francesco sotto un velo bianco imbrattato di sangue. Quando la porta si chiuse alle mie spalle, mi ritrovai di fronte il magistrato e un funzionario della Polizia di Stato. Raccontai loro la nostra storia, chi eravamo: quarant’anni di supplizio semplicemente per aver scelto di lavorare e cresce re onestamente nella nostra terra. Raccontai di tutta la roba che il Minotauro e suoi avevano portato via, per anni, e delle inutili richieste di mio padre affinché pagassero il maltolto. Andai avanti per ore, rispondendo a ogni domanda.
Uscii ch’era quasi notte ormai, soverchiato da un peso schiacciante. Mi sentivo in parte libero, sollevato, ma anche maledettamente solo e la solitudine è una bestia che amplifica ogni turbamento. Era come ritrovarsi in cima a una montagna buia, senz’anima viva attorno, circondato solo da crepacci dei quali è impossibile scorgere il fondo.

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