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La Ue ora punta sulla cattura della Co2 dall’atmosfera. Ecco come funziona e tutti i dubbi su costi, rischi e vantaggi per l’ambiente

Lobby e destre cercano di far entrare nella stesura del Clean Industrial Deal le tecnologie ‘tradizionali’ di cattura e stoccaggio di carbonio da grandi impianti industriali. Secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico un eccessivo affidamento su queste tecnologie rischia di non far raggiungere gli obiettivi di Parigi
La Ue ora punta sulla cattura della Co2 dall’atmosfera. Ecco come funziona e tutti i dubbi su costi, rischi e vantaggi per l’ambiente
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L’Europa punta anche sulla nuova frontiera della cattura del carbonio, la rimozione direttamente dall’atmosfera della CO2. Ma costi e impatti ambientali restano un problema. Nella Bussola sulla competitività, la Commissione Ue prevede di “sviluppare incentivi per la rimozione del carbonio, anche attraverso la revisione del 2026 della direttiva sull’Emissions trading system”, il sistema europeo in cui le aziende vendono e comprano i permessi a inquinare. Un tassello che non compariva nelle bozze. Obiettivo: “Creare un business case per un sistema permanente di rimozioni” e compensare così “le emissioni residue dei settori hard to abate”. Tradotto: c’è da dimostrare (e mettere nero su bianco) che queste tecnologie siano attuabili e vantaggiose. Al momento non si dettano tempi e modalità, né si spiega di che tipo di sostegno si sta parlando. La strada però sembra segnata, come dimostra anche il fatto che il comitato consultivo dell’Ue per il clima abbia nel frattempo a sua volta detto sì all’integrazione nel sistema Ets delle rimozioni del carbonio.

Ma di cosa si tratta? “Il Carbon dioxide removal comprende una serie di metodi basati sulla natura, come la forestazione o l’agricoltura rigenerativa, o sull’ingegneria, come la cattura diretta della CO2 dall’atmosfera. Tecnologie che permettono di rimuovere la CO2 non dai fumi delle ciminiere, per esempio, ma direttamente dall’aria per poi immagazzinarla in serbatoi naturali o siti di stoccaggio geologico”, spiega a ilfattoquotidiano.it Nicola Armaroli, dirigente di ricerca del Cnr, tra i massimi esperti di energia in Italia. Si tratta di tecnologie che, quindi, in molti casi sono complementari e non alternative a quelle ‘tradizionali’ di cattura e stoccaggio di carbonio da grandi impianti industriali. Che pure lobby e destre cercano di far entrare nella stesura del Clean Industrial Deal.

Dal Ccs alla rimozione dall’atmosfera – Il regolamento sull’industria a zero emissioni nette (Net Zero Industry Act) adottato a giugno 2024 pone come target una capacità di stoccaggio di 50 milioni di tonnellate all’anno di anidride carbonica al 2030. La CO2 può derivare sia dalle più note tecniche di cattura e stoccaggio di carbonio (Ccs) sia dalla rimozione del carbonio dall’atmosfera. Nel primo caso, occorre separarla dalle fonti energetiche, dai gas emessi da combustione o da processi industriali, per poi trasportarla in un sito di stoccaggio a lungo termine. Si parla poi di Cattura e utilizzo di carbonio (Ccu) se la CO2 viene utilizzata per realizzare prodotti chimici, materiali da costruzione o combustibili senza uno stoccaggio permanente, perché sarà rilasciata in atmosfera nel momento in cui il prodotto sarà consumato o smaltito oppure di Cattura, utilizzo e stoccaggio di carbonio (Ccus) se il processo prevede lo stoccaggio. Per quanto riguarda il Carbon dioxide removal, invece, ne sono esempi tecnologie come la Dac o Daccs (che combina la cattura diretta dall’aria con lo stoccaggio del carbonio) e la Bioenergia con cattura e stoccaggio del carbonio (Beccs). In quest’ultimo caso, l’anidride carbonica viene catturata dai gas derivanti dalla combustione di biomassa (come residui agricoli o forestali). La CO2 catturata prima del rilascio in atmosfera viene immagazzinata sottoterra utilizzando la tecnologia Ccs. Dac e Beccs possono generare emissioni negative, ma a determinate condizioni non facili da ottenere.

Tra pressioni e nodi non sciolti – A gennaio trenta membri del Parlamento Ue di Renew Europe, Ppe, S&D ed Ecr hanno chiesto a Ursula von der Leyen di includere nel Clean Industrial Deal misure che favoriscano lo sviluppo della Ccus. Hanno firmato la lettera anche gli italiani Elena Donazzan, Alessandro Ciriani e Giovanni Crosetto, tutti di Fratelli d’Italia, incoraggiati dalle parole pronunciate da Giorgia Meloni alla Cop di Baku. Anche la Carbon capture and storage association lo ha chiesto, ricordando la posizione di Draghi sul Ccus. Secondo l’Agenzia internazionale dell’Energia, è una tecnologia essenziale per raggiungere le emissioni nette zero in alcuni settori industriali, ma non va utilizzata per mantenere lo status quo. Anche il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), che arriva a prevedere la cattura di 3 miliardi di tonnellate all’anno di CO2 al 2050, sottolinea che un eccessivo affidamento su queste tecnologie rischia di non far raggiungere gli obiettivi di Parigi. “Queste tecnologie possono avere un ruolo, ancora di più se associate a Dac e Beccs, bisogna però capire a quale costo energetico e, quindi, economico”, commenta Armaroli. Per quanto riguarda le tecniche di cattura e stoccaggio ogni singolo stadio del processo Ccs richiede molta energia. “Una quota superiore al 30% di quella prodotta da una centrale termoelettrica a combustibili fossili viene impiegata solo per il processo di separazione del CO2 mediante ammine” spiega Armaroli.

Occorre poi un’infrastruttura che trasporti l’anidride carbonica in un sito geologicamente idoneo per lo stoccaggio con relativi consumi energetici. “Per ragioni di efficienza – aggiunge – sulle lunghe distanze la CO2 può essere trasportata in forma liquida e questo richiede basse temperature ed elevate pressioni. Una volta a destinazione, anche l’iniezione nel sottosuolo, a una profondità tra i mille e i 3mila metri, ha un costo energetico rilevante”. Recenti stime indicano oggi un intervallo di 100-300 euro per il costo del sequestro di una tonnellata di CO2 in Europa, a seconda della tecnologia. E poi ci sono i rischi, in primis la sismicità indotta: “Sappiamo poco sugli effetti a lungo termine di grandi quantità di CO2 immesse in un sito di stoccaggio geologico – spiega Armaroli – ma terremoti di magnitudo talvolta non trascurabile e legati ad iniezioni nel sottosuolo sono stati registrati negli Stati Uniti, in Algeria, in Canada e nel Mare del Nord”.

Il caso di Ravenna – A settembre 2024 è stato annunciato l’avvio della fase sperimentale, a Ravenna, del primo progetto di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica in Italia. In questa fase la capacità di iniezione è di 25mila tonnellate di CO2 all’anno. Si dovrebbe arrivare a 4 milioni di tonnellate all’anno entro il 2030 e potenziali espansioni fino a 16 milioni di tonnellate all’anno entro il 2040-2050 (per una capacità complessiva di oltre 500 milioni di tonnellate). “Stiamo parlando di un impianto che, ai livelli di emissione di CO2 nazionali italiani attuali, ossia 340 milioni di tonnellate all’anno, potrebbe sequestrare meno del 5% della CO2 immesso in atmosfera in Italia. Questo nell’ipotesi più ottimistica, che è tecnicamente da dimostrare. E a che costo?”, commenta Armaroli, secondo cui è improprio fare paragoni con gli impianti norvegesi di Sleipner e Snøvit. “Sono tra i pochi a vantare risultati quasi in linea con le aspettative – spiega – anche se ci sono stati diversi imprevisti dal punto di vista tecnico e finanziario”. Ma la Norvegia ha una legislazione molto avanzata in termini di sicurezza, controlli e tassazione del carbonio. “Gli impianti sono nel mezzo del mare del Nord. Rispetto al rischio di sismicità indotta – ricorda l’esperto – non sono paragonabili gli effetti che si potrebbero produrre a Ravenna, patrimonio dell’Umanità. Vale anche per l’impianto Ccs Gorgon di Barrow Island, appena al largo della costa dell’Australia, “uno dei luoghi più remoti e disabitati del mondo”.

Tecniche nuove, rischi già noti – Se le tecnologie di cattura e stoccaggio possono arrivare fino a 120 euro per tonnellata, le stime sui costi della Dac variano da 300 a 600 dollari a tonnellata “soprattutto perché la concentrazione di CO2 in atmosfera è molto più bassa (circa lo 0,04%, ndr) di quella presente nei gas post-combustione o nei gas di scarto industriali – spiega Armaroli – e questo richiede un apporto energetico molto maggiore rispetto alla Ccs tradizionale”. Restano i rischi legati ai costi di gestione e stoccaggio della CO2. Morale: il Dac usa tanta energia, che dovrebbe essere quasi a zero emissioni per garantire che si catturi più carbonio di quanto non ne venga rilasciato. Anche le tecnologie Beccs, di cui esistono diverse varianti, comportano alcuni rischi: dalla competizione per l’uso di suolo tra colture destinate alla produzione alimentare e alla produzione di energia, fino alle emissioni di CO2 prodotte per coltivare e lavorare la biomassa. Si stima che i progetti attualmente nelle fasi iniziali e avanzate di distribuzione potrebbero portare a 60 milioni di tonnellate di CO2 rimossa al 2030, molto meno dei circa 190 milioni di tonnellate previsti dalla Iea entro la fine del decennio nello scenario Net Zero Emissions al 2050. Ma il potenziale sarebbe ancora più basso. Secondo uno studio del tedesco Potsdam Institute for Climate Impact Research, prendendo il considerazione gli effetti sui ‘limiti planetari’ tracciati nel 2009 dallo Stockholm Resilience Centre, tra cui deforestazione e disponibilità di acqua dolce, anche al 2050 si arriverebbe a non più di 200 milioni di tonnellate.

Nella foto l’impianto Sleipner di Equinor

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