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MotoGP 2025: Ducati padrona, ma il duello Marquez-Bagnaia da solo non può bastare. Gli sforzi di Aprilia tutti sulle spalle di Bezzecchi

In Thailandia comincia una stagione che rischia di riassumersi nello scontro interno a Borgo Panigale. Colpa anche della sfortuna che si è abbattuta su Martin, della crisi di Ktm e non solo. Ma sul futuro urge una riflessione
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Marquez, Bagnaia, Ducati. Dovendo spendere tre sole parole per descrivere la stagione della MotoGp al via questo weekend nell’infausto fuso orario dell’umidità peri-tropicale di Buriram, Thailandia, ci si potrebbe fermare qui. Anzi, per essere ancora più chiari: Ducati, Marquez, Bagnaia. Perché comunque vada, almeno nelle premesse, il mondiale sembra un affare privato dello squadrone di Borgo Panigale, con qualche incognita data qua e là dai team satellite (Gresini e Vr46) e l’unico pruriginoso azzardo su chi dei due alfieri del team ufficiale sarà il vincitore a fine stagione, in novembre. Non è poco, sia chiaro, ma il duello monomarca pare non avere abbastanza pathos per sostenere da solo il campionato.

Da un lato Marquez, cannibale a secco da 5 travagliati anni, è alla ricerca della conferma di sé. Ma se i titoli raccolti in Honda fino al 2019 raccontano il pilota che vinceva e stravinceva grazie alla moto e nonostante la moto – leggi: “Io sono il migliore” – il passaggio in rosso, al di là dell’indubbio affare di marketing per Ducati, racconta i crucci di un adulto nel frattempo diventato più razionale: “Per vincere mi serve la moto migliore”. Legittimo, a 32 anni, ma poco romantico va da sé, pensando ai tempi in cui Valentino Rossi scendeva dalla favorita Honda per trionfare con l’allora trabiccolo Yamaha. Invecchiando anche lui si piegò alla ricerca del mezzo migliore, certo, e nemmeno gli bastò per tornare a vincere. Corsi e ricorsi della storia, si vedrà…

Intanto i sogni italiani si fanno con quello che c’è. Che ancora una volta non è poco: Pecco Bagnaia, urticato dal campionato perso contro Jorge Martin pur avendo dominato in lungo e in largo nelle gare della domenica, parte per rifarsi. Il piemontese è sicuramente il più costante, il più preciso, il più aggraziato dei piloti in pista. Ma quella mancanza di cattiveria sulla corta distanza, diventata virale nel video-rimprovero di Davide Tardozzi proprio dopo la sprint thailandese di un anno fa – “Non puoi essere sempre e solo un signore. Non puoi, perché questi ti fanno il culo” – è la summa dell’aura tutt’altro che infuocata che lo avvolge: bravo pilota, bravo ragazzo, corretto, sempre circondato da moglie e sorella, sportivo persino di fronte alla sconfitta. Queste qualità, più apprezzate fuori dall’agonismo che dentro, gli valgono un perenne alone di dubbio: è davvero così forte o ha solo avuto la moto indubitabilmente migliore?

E anche qui ci si potrebbe fermare, ma si perderebbero almeno due statistiche fondamentali, quattro marchi e una ventina di piloti agguerriti tra cui il campione del mondo in carica. Partiamo dai numeri che già da soli dicono tutto il resto: è la prima volta da 21 anni che il vincitore del titolo scende dalla moto con cui ha vinto per ripresentarsi sotto altre insegne. Era Valentino Rossi, per l’appunto, nel 2004. Oggi è Jorge Martin. E però, come noto, Martin, talento puro sbraitato ai quattro venti ma frustrato dalle scelte di Borgo Panigale, è stato fulminato dalla legge di Murphy appena dismessi i panni Pramac. A parte i giri fatti sulla Rs-Gp all’indomani della vittoria del titolo, ebbro di soddisfazione e di festeggiamenti, Martinator è totalmente digiuno della nuova moto. Il primo infortunio patito nei test di Sepang dopo nemmeno tre giri gli è costato una operazione alla mano destra e una frattura al piede sinistro, oltre che l’intero pre-stagione. Il secondo, ben più grave, durante la prima sessione di allenamento che doveva restituirgli fiducia per presentarsi in pista a Buriram, gli è valso un’altra frattura allo stesso piede, tre alla mano sinistra e un due chiodi nella stessa mano. Al netto dei tempi di recupero (sui giornali spagnoli si ipotizzano quattro Gp di stop) sarebbe ai limiti del miracolo vederlo tornare in pista e lottare per vincere con due mani acciaccate e zero sensibilità su una moto tanto fisica quanto sconosciuta sotto il sedere. Una cosa del genere non accadeva dal 1979.

Peccato, perché le aspettative su Aprilia erano (e restano) altissime. Unica a spezzare il monomarca Ducati nel 2024, la casa di Noale ha investito a 360 gradi: nuovi piloti, nuovo direttore tecnico, tanti soldi nello sviluppo. Per tradurre in risultati questo sforzo al momento dovrà contare sul solo Marco Bezzecchi. Il Bez – chi scrive sta per tradire un favoritismo – è l’unico pilota tra i 22 a far battere un po’ i cuori nostalgici: scapestrato, un po’ cialtrone, romagnolo tutto piadine e officina, incarna il sogno del pilota che ancora si diverte e fa divertire. Tra tute leopardate e riccioli che richiamano altri ricordi, il pilota di Rimini ha inanellato 420 giri nei test chiudendo terzo proprio a Buriram, impressionando peraltro con la Rs-Gp 25 più nel ritmo-gara che nel singolo giro. Sperem.

Oltre il derby Italia-Spagna c’è il resto della truppa, uscita pesantemente rimescolata dal mercato piloti. Yamaha con Fabio Quartararo sembra avere ritrovato il bandolo della matassa ben più di Alex Rins. Difficile pensare che sarà costantemente in vetta, ma sicuramente punta a una stagione meno opaca di quella del 2024. In attesa delle nuove regole e dei nuovi motori 800 che dovrebbero – si spera – ridurre i gap tra i marchi nel 2027, la casa dei tre diapason sembra molto meno in difficoltà, anche economica, degli altri giapponesi di Honda. Sì, Mir, Zarco e Marini hanno fatto qualcosa meglio nei test, ma boh: un secondo di distacco nella MotoGp di oggi è un abisso. Senza contare gli effetti a medio termine dell’addio di Repsol, munifico sponsor di lunga data. E poi c’è il caos Ktm: la moto austriaca cerca di volare con alettoni e alettoncini disseminati in ogni dove, ma è appesantita da travagli societari e mega-debiti. I suoi piloti – con l’eccezione del fenomeno-designato Pedro Acosta – sembrano spaesati in sella al loro mezzo. Brad Binder ha fatto vedere qualcosa ma senza costanza. Enea Bastianini e Maverick Vinales sembrano invece già arrovellarsi tra le difficoltà con le loro Tech3 (in tutto e per tutto identiche alla factory). Su di loro e sulle loro scelte ci sarebbe da aprire un capitolo a parte, ma non qui e non ora: vedremo se e quando le iniziali difficoltà si trasformeranno in inquietudine.

In questo quadro l’ultimo capitolo è per forza dedicato al futuro. Dorna, che gestisce il circus sotto la nuova proprietà di Liberty media (la stessa della F1) ha fatto sapere che il formato Italia-Spagna è agli sgoccioli: troppi piloti e troppe gare da e nei due Paesi sono una condizione non più accettabile. È la globalizzazione, bellezza. E lo scenario è tracciato: più circuiti, più paesi, più voli in posti altrimenti misconosciuti, più piloti da tutti i continenti. Ben venga, se porta competizione. Se invece dovesse diventare una parata di figli di papà come accaduto nei team di rincalzo della Formula 1, lo sport ne risentirebbe e qualcuno potrebbe anche farsi molto male.

E poi c’è la questione tecnica: il mercato sta cambiando pesantemente sotto il peso dei prezzi e delle politiche sul clima. Guardando all’Italia, marchi come Ducati spingono su mezzi evidentemente premium – ancorché meno esclusivi di un tempo – e per ora la scelta sembra pagare. Aprilia pare più interessata al mercato “giovane” con mezzi un filo più economici, sbarazzini e una immagine vicina al sentiment adolescenziale. Del disastro Ktm si è detto. Honda e Yamaha, soprattutto la prima, fanno i numeri con la mobilità urbana. E poi? Alle porte c’è la sempre paventata discesa in campo di Bmw e si affacciano molti agguerriti marchi cinesi, alcuni dei quali con proposte interessanti. Grande è la confusione sotto il cielo, insomma, per restare in Cina. Ma la verità è che lo sport agonistico si sta totalmente alienando dalla produzione di serie. E molti clienti, anche appassionati e smanettoni, non vogliono vedere un proliferare di ali anche sulle loro due ruote.

In questo quadro ha ancora senso un campionato prototipi con moto brutte, ma brutte brutte, infarcite di appendici aerodinamiche che le spingono ad accarezzare i 370 km/h sul rettilineo del Mugello? La risposta sarebbe un no secco, se non fosse che impedire alle case di innovare per andare più forte è come chiedere di giocare per perdere. E nessuno lo fa, la Formula 1 recente lo insegna. Dorna/Liberty, a parte il restyling grafico, per ora ha puntato sulla eliminazione degli abbassatori e su una riduzione della cubatura e delle superfici aerodinamiche, ma c’è da scommettere che il calo delle prestazioni generali sarà solo temporaneo, anche perché la sorellina minore Moto2 incalza al punto che i tempi delle 675 di oggi sono in linea con la motoGp di 20 anni fa, per capirsi. Così si tornerà inevitabilmente al punto di partenza e al dilemma di tutto questo evo iperevoluto e monotono: come continuare a vendere un format non più basato sulla rivalità tra uomini ma tra tecnologie concorrenti? Questo, almeno, finché i destinatari del prodotto saranno esseri umani e non intelligenze artificiali.

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