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Se Dio è morto, non rimpiazzarlo con Hermès!

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Oggi è quanto mai importante la disambiguazione delle notizie per non perdere di vista il cosiddetto the matter. Nell’ondata di pubblico biasimo che si è riversata su una rappresentante del governo si è gridato alla lesa maestà perché tale personaggio osava comprare e regalare (oibò!) false borse Hermès. Dando per scontato il valore indiscutibile di tali oggetti posti, in un’immaginaria scala di valori, un gradino appena sotto al Cristo trasfigurato di Raffaello.

Questa scala si potrebbe definire l’Himalaya del benessere economico. Oggetti atti a certificare l’appartenenza ad un gruppo ben definito di acquirenti, il cui portafoglio può permettersi di adire a tale empireo. Tutto questo evoca figure quali la moglie di un marito ricco, l’amante con un partner dovizioso, l’essere un professionista più o meno arrivato… Un orpello “multi-semantico” viene esibito per testimoniare qualcosa che in verità è una protesi che denuncia spesso inadeguatezza, paura, ostentazione di uno status reale o presunto.

Il racconto del pusher di borse Hermès contraffatte che vendeva a Santanchè è interessante. Descrive una donna di 64 anni, matura e si presume avvezza al mondo, con responsabilità di governo, nascondersi in una tenda di Forte dei Marmi per scegliere una serie di borse, indisturbata e al riparo da sguardi indiscreti. Cosa la spinge a fare ciò? La scelta di una borsa (taroccata o no) dovrebbe essere una cosa piacevole in quanto che rientra nella sfera delle auto gratificazioni che uno vuole dare a sé stesso. Perché questo essere umano e tante donne e uomini (non voglio certo circoscrivere il fenomeno) con lui sono portate ad acquistare tali oggetti siano essi provenienti dai “blasonati” lombi di Hermès siano essi prodotti in qualche magazzino più o meno clandestino. Il vulnus sta qui.

Il Covid ha segnato anche nel campo borse e affini un cambiamento. Si è tratto spunto dai negozi che avevano l’esigenza di regolare l’afflusso del pubblico, da qui è nata l’idea del marketing di creare come una barriera tra il fruitore e l’oggetto del desiderio, per porre l’oggetto sempre più in alto fino ad arrivare ad un empireo oltre il quale esso campeggia. In taluni spazi commerciali è stato imposto agli addetti alla vendita di fingere di non capire se il possibile acquirente chiede ingenuamente “quanto costa?”, su successive sollecitazioni del tapino, il commesso riluttante sgranando gli occhi se ne esce con una frase come: “Intende il suo valore?”. Dopo un’accurata spiegazione del cliente, l’addetto alla vendita rivela, stando attento, a non farsi sentire in giro: “Ci hanno fatto un corso e ci hanno detto di dire così”.

Allora con tutta l’empatia che può suscitare l’addetto alle vendite, vorrei ribadire che l’acquisto di tali oggetti non ha nulla di sacro. Serve solo a compiacere qualche piccola o grande vanità, ma di per sé non riveste nessuna rilevanza né valore. Diciamo che la pietra di inciampo che ha portato alla ribalta le borse taroccate o meno della ministra, è utile per una disambiguazione. Se dio è morto, non rimpiazzarlo con Hermès.

Un capitolo a parte di questa historie si apre con l’intervista su Repubblica di Francesca Pascale, affermata attivista LGBT. Pascale che con la sua rabbia per aver ricevuto due Hermès false da Santanchè ha scatenato il polverone. Nell’intervista di domenica 23 febbraio Pascale afferma: “Santanchè sfoggiava borse di tutti i colori, mentre ‘facoltosissime’ clienti aspettano mesi per averne una”. La Signora Pascale, tanto inquieta per il riconoscimento dei diritti LGBT, appare quanto mai genuflessa verso la scala delle “facoltosissime” alla quale immagino ella appartenga. Pensiamo allo sdegno di costoro costrette iniquamente ad attendere.

Quella delle liste d’attesa non è altro che l’ennesimo escamotage del marketing del lusso per abbindolare un maggior numero di clienti, venendo incontro al desiderio di ognuno dei potenziali acquirenti (di una borsa, di una cena in un ristorante stellato etc…) di farsi immolare sull’altare del lusso, giocando sul masochismo insito in siffatta clientela. Altro passo falso della suddetta intervista è quello dove Pascale spiega che il pusher di borse di Santanchè era “un abilissimo venditore che va in Turchia a farsi fare le borse”, senza accorgersi di sollevare una questione quanto mai vergognosa: quella dello sfruttamento dei minorenni immigrati clandestini in Turchia, messi a fabbricare borse e scarpe in grandi capannoni in condizioni estreme e prive di qualsiasi tutela.

Insomma, cominci a disambiguare e ti accorgi di spalare “shit everywhere”.

E in ultimo mi si consenta, cosa è Hermès? Il capostipite era un sellaio che artigianalmente creava bardature e finimenti per cavalli. Ad oggi la multinazionale ha sviluppato su questa tematica un numero infinito di oggetti, per una clientela che in gran parte non ha né un cavallo né tantomeno una scuderia. Acquista quindi oggetti allegorici che rimandano ad un mondo astratto e lontano. Mia madre, donna dura ma saggia, avrebbe liquidato la faccenda con un vecchio detto: “comprare la frusta prima del cavallo”. Originale o taroccato non importa.

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