Ciò che più stupisce dello tsunami bellicista e riarmista che sta travolgendo l’Europa, passata dall’islamofobia alla russofobia alla costante ricerca di un nemico che ne giustifichi il gigantesco trasferimento di risorse civili e sociali nelle casse dell’industria bellica internazionale – secondo il principio che descriveva Umberto Eco: “Poiché per fare la guerra ci vuole un nemico con cui guerreggiare, la ineluttabilità della guerra corrisponde alla ineluttabilità dell’individuazione e della costruzione del nemico” (Costruire il nemico, 2008) – è l’assenza nelle classi dirigenti, ostaggio delle lobby delle armi, e nei media che li supportano, spesso emanazione diretta del complesso militare-industruale, di una visione generale fondata su punti di riferimento che ne indichino l’orizzonte di senso.

Eppure in Europa non mancano punti di riferimento luminosi che hanno contribuito a costruire, proprio nei momenti più oscuri, quei “valori” europei oggi tanto evocati nella vulgata quotidiana quanto contraddetti nelle scelte politiche nazionali e sovranazionali. Ricordo qui alcune figure di epoche diverse che hanno fornito un contributo essenziale alla costruzione della civiltà europea, accomunati dalla preoccupazione di mettere in guarda contro il nazionalismo ed il militarismo, facce oscure della medesima medaglia bellicista.

Erasmo da Rotterdam, il primo intellettuale cosmopolita europeo – che dà oggi il nome al più diffuso programma europeo di scambi giovanili, ma il cui pensiero è totalmente dimenticato – nel continente dilaniato dalle guerre di religione scriveva il Lamento della pace (1517), indicando nella guerra il peggiore di tutti i mali, perché ribalta l’ordine dei valori: “Se giudichi peggior condizione per uno stato quella in cui i peggiori prevalgono, la guerra è il regno dei più scellerati e in guerra brillano coloro che in pace inchioderesti al patibolo”. E continuava: “Se per un principe amorevole nulla dev’essere più importante dell’incolumità dei sudditi, la guerra gli dovrà riuscire odiosa più di ogni altra cosa”.

Concetti ripresi da Immanuel Kant che ha rifondato il pensiero etico-politico con il quale ha inizio la modernità. Nato a Königsberg odierna Kaliningrad, nel Progetto filosofico per la pace perpetua (1795), dopo il travolgimento dell’ancien regime operato dalla Rivoluzione francese, ne indica come condizione preliminare la scomparsa degli eserciti permanenti e della corsa agli armamenti: gli Stati “pronti come sono a mostrarsi sempre armati minacciano costantemente di guerra gli altri Stati e spingono questi a superarsi a vicenda nella quantità degli armati, che non conosce limiti, e poiché, con i costi che ciò richiede, la pace diventa alla fine ancora più pesante di una breve guerra, sono allora essi stessi causa di guerre di aggressione”. E’ la razionale decostruzione del principio di deterrenza – oggi tornato follemente di moda, in epoca nucleare – che genera il “dilemma della sicurezza”: ossia la corsa agli armamenti per la sicurezza di un attore statale, genera la speculare corsa agli armamenti di chi se ne sente minacciato, generando insicurezza per tutti.

E mentre in Europa si affermavano i fascismi, fondati sul militarismo come carattere identitario primario, Simone Weil, che alla critica della guerra e della sua preparazione ha dedicato molte pagine, ne esplicitava l’intimo carattere reazionario: “Il grande errore in cui cadono quasi tutte le analisi riguardanti la guerra è di considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre è prima di tutto un fatto di politica interna, il più atroce di tutti. (…) Si tratta di un rilievo assai semplice: il massacro è la forma più radicale di oppressione; i soldati non si espongono alla morte, sono mandati al massacro. Come ogni apparato oppressivo, una volta costituito, resta fino a quando non viene spezzato, così ogni guerra, imponendo un apparato finalizzato a dirigere le manovre strategiche su masse costrette a servire come masse di manovra, deve essere considerata, anche nel caso in cui sia condotta da rivoluzionari, un fattore reazionario” (Riflessioni sulla guerra, 1933).

Ha presente questo filone civile del migliore pensiero europeo Altiero Spinelli quando dal confino di Ventotene, nel momento più buio della seconda guerra mondiale immagina un’Europa unita, pacifica e federale, mettendo in guardia, a sua volta, dalla combinazione infernale di nazionalismo e militarismo: “Anche nei periodi di pace, considerati come soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive, la volontà dei ceti militari predomina ormai in molti paesi su quella dei ceti civili, rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi: la scuola, la scienza, la produzione, l’organismo amministrativo sono principalmente diretti ad aumentare il potenziale bellico” scriveva con Ernesto Rossi nel Manifesto di Ventotene (1941). E nello scritto dell’anno successivo aggiungeva che “il pericolo permanente di conflitti armati tra popoli civili deve essere estirpato radicalmente, se non si vuole che distrugga tutto ciò a cui si tiene di più” (Gli stati uniti d’Europa e le varie tendenze politiche, 1942). Come fare? “La federazione europea riduce al minimo le spese militari, permettendo così l’impiego della quasi totalità delle risorse a scopi di elevazione dello stato di civiltà”.

Qualcuno lo spieghi a chi, riempendosi la bocca della parola Europa, sta facendo sciaguratamente ed esattamente il contrario.

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