di Silvia D’Autilia

L’amarezza e la delusione del momento sono così forti che le parole faticano a trovare la via. Eppure, fosse solo a beneficio del futuro e dei nostri figli, abbiamo il dovere di metterle per iscritto e dichiarare esplicitamente che questa vocazione bellicista e questa politica di riarmo categoricamente non ci rappresentano. Né devono essere compiuti in nostro nome.

Era il 1914, un anno prima dell’ingresso ufficiale dell’Italia nel primo conflitto mondiale, quando, nel furore interventista dei tempi e della “guerra igiene del mondo”, il poeta Giovanni Papini scriveva sulla rivista Lacerba che in fondo la guerra crea sì il vuoto, ma solo perché si respiri meglio. Una nuova aria più pulita e depurata dalle scorie di uomini molli, flosci e senza risolutezza era la motivazione per una rapida discesa in campo e l’avvio della vita in trincea. Poco più di venticinque anni dopo, alle porte del secondo conflitto mondiale, gli stessi entusiasmi bellicisti, aizzati dall’irrefrenabile fervore dei regimi totalitari, hanno nuovamente trovato una platea di ben disposti intellettuali e placida gente comune ad accogliere e perorare la causa della guerra. È solo stato il consueto senno di poi, con cui rielaboriamo gli eventi e facciamo i conti con gli avvenimenti, ad averci insegnato a fugare quelle guerre come la peste, e a interrogarci su come sia stato possibile il loro accadimento.

Nemmeno oggi, un ottantennio dopo, ci viene risparmiato lo stesso inverecondo spettacolo, con tanto di pronte giustificazioni politiche e di intellettuali preparati per l’occasione. Il copione non cambia. Le ragioni del bellicismo sempre si trovano, le risorse pure, e, tramite una robusta e consolidata propaganda, diventano immediatamente questioni inderogabili. Tutto si tiene e tutto si ripete in un eterno ritorno dell’uguale ogni volta in grado di azzerare gli insegnamenti del passato. Il paradosso della storia è sempre lo stesso: si occupa principalmente degli orrori delle guerre, ma proprio le stesse guerre, rappresentate di volta in volta come necessarie e indispensabili, hanno la capacità di neutralizzarla, come non fosse mai passata. L’architrave di retorica che le supporta non è mai cambiato; sono solo cambiati i mezzi: oggi, ad esempio il linguaggio mediatico è divenuto così capillare, tramite i social, le chat e le piattaforme di rapido scambio dei contenuti, che questo processo ha addirittura accelerato i tempi di realizzazione.

Grazie all’ormai consueta cornice di emergenzialismo, nel giro di un triennio, l’invio di armi in supporto a Kiev, all’interno del conflitto russo-ucraino, si è trasformato in una dichiarata volontà di guerra, che ha visto la Signora Von der Leyen invocare l’utilizzo di 800 miliardi di euro per armare direttamente l’Europa: una finestra di Overton presagita e preannunciata da tempo da tanti, e divenuta pura realtà proprio ora che gli Usa vogliono guarda caso abbandonare la partita nel segno di un accordo di pace. Ma quindi, adesso che il re è nudo, per cosa si dovrebbe combattere esattamente? La risposta è presto servita e ha a che fare con quel suprematismo morale occidentale con cui abbiamo giustificato tutti i conflitti condotti nel segno della democrazia da esportare, per mascherare i diktat delle grandi bolle finanziarie, prima tra tutte appunto quella delle armi.

I grandi valori dell’Europa, tanto sventolati alla manifestazione di sabato scorso a Roma in Piazza del Popolo, sono di così elevata statura da dover essere difesi con le armi. Il sangue farà meno orrore se versato per una giusta causa. E se la democrazia si riconferma con le armi, la pace non può che essere raggiunta con la guerra!

Siamo oramai ben lontani da quella idea di pacifismo per cui l’Europa, nata come territorio cuscinetto, altresì a garanzia di tregua e distensione sia geografica che politica tra i due blocchi in conflitto nella Guerra Fredda, deve rappresentare una voce franca di cooperazione, dialogo, diplomazia. E non di certo un emblema di militarizzazione, che, a effetto domino, come già accaduto nel clima di deterrenza nucleare del secondo dopoguerra, spingerà e spronerà altri Stati ad armarsi sempre di più nella gara a chi fa più paura all’altro. Una nazione concretamente pacifica fin dalle sue fondamenta culturali non ha certo ossessioni ipersecuritarie.

Ecco perché, prim’ancora di gloriarsi sventolando vanamente concetti di pace, occorre parlare di cultura della pace, quella non negoziabile, non strumentalizzabile, non cedibile di un solo millimetro, nel tenere lontani i nostri figli dai campi di battaglia e prim’ancora dal lessico di guerra nella loro educazione e quotidianità. E soprattutto nel salvaguardare le prossime generazioni dallo sperpero di risorse per armamenti, anziché per sanità, scuola, sostegni sociali e tutto quanto gli possa procurare un reale futuro di benessere e prosperità.

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