Lo psichiatra, sociologo e saggista fa una radiografia lucida e netta della società di oggi
Paolo Crepet con “Mordere il cielo” sarà in scena Il 25 marzo al teatro Verdi di Brindisi, il 26 marzo a Gallipoli, al teatro Italia, e l’11 aprile a Bari, al Teatroteam. Un titolo non a caso, infatti “mordere il cielo”, come riporta Il Corriere della Sera, per lo psichiatra, sociologo e saggista “significa cercare di non abbassare gli occhi su uno schermo allontanandosi da tutto, ma preoccuparsi per la crisi che stiamo attraversando. Una crisi che non è fatta solo di armi e di morte, ma anche di qualcosa che sta accadendo nella nostra quotidianità. È questa la grande scommessa: capire che mondo vogliamo”.
E ancora: “L’innovazione tecnologica è sempre una cosa interessante, dalla ruota fino a oggi. Ma, come per ogni cosa, bisogna fare delle valutazioni, capire cosa ci guadagniamo e cosa ci perdiamo. Se crediamo che tutto avvenga per un futuro radioso, o siamo scemi o siamo ingenui”.
Un momento non proprio positivo: “Non mi pare che sia un futuro radioso aver chiuso tutte le edicole, i cinematografi, le biblioteche comunali, certi locali in quanto luoghi in cui stare e non solo consumare, come i bar frequentati dai vecchi per giocare a carte ma anche raccontarsi la vita. Questo io non lo chiamo miglioramento. E non perché sia un pessimista, sono semplicemente una persona ben informata”.
La radiografia dell’oggi è netta: “Oggi si sta diffondendo una cultura che è riassumibile in alcune frasi semplici: “Io ho tutto ciò che mi necessita. Io sono a posto’. I padri pensano di avere fatto il loro dovere perché lasceranno un appartamento ai figli. Preoccupiamoci, invece, ogni tanto del nostro Paese che è un disastro. Una generazione che cresce con un solo diritto, quello all’eredità, è una generazione dalle radici marce, è come la Xylella».
E ancora sui genitori e figli: “Il rapporto tra le generazioni è diventato da preoccupante a disastroso. Basta guardare cosa fanno le madri, i padri che trattano i bambini come se non fossero persone. È una cosa raccapricciante. I bambini e i ragazzini sembra che non sappiano più fare niente in quanto noi adulti gli togliamo qualsiasi responsabilità, anche di fronte al dolore, alla morte. E, infatti, le favole servono a questo, se non ci fosse poi qualche altro che vuole trasformarle in politicamente corretto”.