Società

Da Valditara a Vecchioni: Occidente, cultura ed Europa usati come stampini per biscotti

Modernità è Occidente. Ovvero la modernità è un regime di temporalità che si attaglia a uno specifico contesto geografico, culturale, filosofico, politico che possiamo genericamente definire Europa prima e Occidente poi. Che cosa deriva dallo stabilire questo legame, dal fissare questa endiadi? Niente, dal punto di vista assiologico. Quello che voglio dire è il sostantivo ‘modernità’ e il relativo aggettivo ‘moderno’ non possono implicare alcun giudizio di valore: essere ‘moderni’ non è né una buona cosa né una cattiva cosa, è solo un dato.

Mi rendo conto che questo discorso contrasta con l’utilizzo comune che viene fatto di questi termini, come se si trattasse di parole che hanno in sé una portata positiva, tanto da consentire ai più di impiegarle per dire “non sei moderno” oppure “non sei entrato nella modernità” per dire che sei “arretrato” o, in un uso ancora più volgare e storiograficamente miserrimo, sei “medievale”. Purtroppo infatti questi regimi di temporalità vengono usati come clave normative per dire che ciò che siamo “noi” determina ciò che devono essere anche gli altri. E così negli anni abbiamo letto e sentito che l’Islam non era ‘moderno’, perché il parametro con cui vengono misurate altre culture è il nostro, quello etnocentrico di chi pensa: “se non mi assomigli, è un male”.

Ernesto de Martino distingueva tra le forme dell’etnocentrismo critico e quelle dell’etnocentrismo acritico, ovvero nel primo caso l’idea che noi non possiamo uscire da noi stessi per interpretare il mondo, e se dunque siamo europei lo leggeremo con le categorie che sono infisse nella nostra coscienza culturale, ma ciò non attribuisce alcuna patente di superiorità; nel secondo caso, che quelle categorie, parziali e situate, vengono considerate come le migliori possibili, superiori a ogni altra, le uniche da doversi impiegare per ‘misurare’ il livello di ‘sviluppo’ di tutte le altre. Il grande etnologo sapeva perfettamente che questo era servito anche alla disciplina che egli praticava per piegare il mondo alla volontà e alla violenza dell’Europa. E giustamente metteva in luce, prima di Edward Said e di tutto un importante filone interpretativo critico, che l’Europa è stata (anche) fucina di dominio e sopraffazione, aiutata in questo dalle sue scienze.

In queste ore noi siamo di fronte a un ritorno (qualora se ne fossero mai andati) di questi pseudo-concetti. Si leggano le linee guida del ministro Valditara, uscite in bozza e al centro di molte polemiche per espressioni come “Solo l’Occidente conosce la Storia. Altre culture, altre civiltà hanno conosciuto qualcosa che alla storia vagamente assomiglia. È attraverso questa disposizione d’animo e gli strumenti d’indagine da essa prodotti che la cultura occidentale è stata in grado di farsi innanzi tutto intellettualmente padrona del mondo, di conoscerlo, di conquistarlo per secoli e di modellarlo”. Siamo proprio a ciò che si diceva prima: un regime di temporalità qualsivoglia imposto come un parametro a tutti gli altri, in modo da giudicarli e anche di rivendicare la propria primazia.

Poi c’è la versione europeista di questo rinnovato orgoglio etnocentrico. È la ‘guerra’ (di nuovo) contro il MAGA da una parte e il putinismo dell’altra, il manifestare per un’Europa così com’è, una Ue così com’è, e pazienza se non ci piace del tutto perché in fondo essa ci permette di pronunciare quel “noi” che fa dire a Roberto Vecchioni che la cultura “dovrebbe essere nostra e basta, certamente è nostra la cultura, loro non sanno cosa sia”.

E non si tratta di replicare a Vecchioni o a Valditara cercando di opporre cataloghi ad altri cataloghi (mi scuso per il frusto gioco di parole ma il vecchioniano “da Socrate a Pirandello” è un po’ il minestrone jovanottiano “da Che Guevara a Madre Teresa”), finendo col dire ciò che Habermas attribuisce al povero Saul Bellow (che non l’aveva mai detto): “quando gli Zulu avranno un loro Tolstoj noi lo leggeremo”. È che non si tratta di aspettare un Tolstoj nero, ma di dire che le storie e le culture sono diverse. E di riconoscere che se siamo affezionati legittimamente alla ‘nostra’ (qualsiasi cosa voglia dire, e ciò comunque apre una voragine filosofica), non per questo ne possiamo fare lo stampino per biscotti (per riprendere un’espressione di Benedict Anderson) a cui o gli altri si conformano, o sono ‘inferiori’.