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“Massimizzare l’efficienza bellica nei periodi di pace per preparare inevitabili guerre”: così il Manifesto di Ventotene parla dell’Ue di oggi

La premier semplifica e attacca il testo di Spinelli, Rossi e Colorni che tracciava anche un impietoso identikit del regime fascista. E criticava pure quello comunista: "Se contassero come forza politica sarebbe il fallimento del rinnovamento europeo"
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A Giorgia Meloni e a Fratelli d’Italia il Manifesto di Ventotene non piace. Dice, la presidente del Consiglio, perché teorizza una rivoluzione “socialista” per l’Europa che uscirà in macerie dalla seconda guerra mondiale. Ma, a parte l’estrema semplificazione a fini politici di un testo estremamente complesso, forse non è solo per questo. Il documento, redatto nel 1941 da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi mentre erano al confino sull’isola tirrenica, traccia un impietoso identikit del regime fascista di cui FdI e la fiamma che arde nel suo simbolo sono i dichiarati eredi politici, descrivendo la parabola dello stato nazionale trasformatosi in uno stato totalitario nel quale “nuovi dogmi (…) si stanno accampando in tutte le scienze. Quantunque nessuno sappia che cosa sia una razza (…), si esige dai fisiologi di credere di mostrare e convincere che si appartiene ad una razza eletta, solo perché l’imperialismo ha bisogno di questo mito per esaltare nelle masse l’odio e l’orgoglio“; “i più evidenti concetti della scienza economica debbono essere considerati anatema per presentare la politica autarchica“; “gli uomini non sono più considerati cittadini liberi” ma “sono servitori dello stato che stabilisce quali debbono essere i loro fini”. “Gli uomini – infine – non sono più soggetti di diritto, ma gerarchicamente disposti, sono tenuti ad ubbidire senza discutere alle gerarchie superiori che culminano in un capo debitamente divinizzato“.

Il documento considerato alla base della creazione dell’Unione europea mette quindi in fila le conseguenze della degenerazione dello Stato nazionale, che risuonano sinistramente nel panorama europeo attuale. Nel momento in cui la nazione “è divenuta un’entità divina“, “ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo ‘spazio vitale’ territori sempre più vasti”, in quel momento “lo stato, da tutelatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi, tenuti a servirlo con tutte le facoltà per rendere massima l’efficienza bellica. Anche nei periodi di pace, considerati come soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive, la volontà dei ceti militari predomina ormai, in molti paesi, su quella dei ceti civili, rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi“, scrivono gli autori. Difficile non pensare alla volontà di escludere l’Europarlamento dalle decisioni sul riarmo.

In questo contesto “la scuola, la scienza, la produzione, l’organismo amministrativo sono principalmente diretti ad aumentare il potenziale bellico; le madri vengono considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche (situazione che ricorda la penuria di uomini da mandare la fronte in cui versano Russia e Ucraina, ndr); i bambini vengono educati fin dalla più tenera età al mestiere delle armi e dell’odio per gli stranieri (concetto, quest’ultimo, sul quale Fratelli d’Italia e Lega hanno fondato le loro fortune elettorali, ndr); le libertà individuali si riducono a nulla dal momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestar servizio militare“, proposta questa lanciata fino a pochi mesi fa da Matteo Salvini e dagli alleati di governo del Carroccio.

Anche dopo la sconfitta della Germania – della quale nel 1944, anno della pubblicazione del Manifesto da parte di Eugenio Colorni, ci sono avvisaglie ma che è ancora di là da venire – gli Stati nazionali, o nella visione degli autori la loro degenerazione, continueranno a essere il problema. “Nel breve intenso periodo di crisi generale in cui gli stati nazionali giaceranno fracassati al suolo”, scrivono, le forze conservatrici “sentono che l’edificio scricchiola e cercano di salvarsi”. Così si “proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle classi più povere” e “il punto sul quale cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale”. Di qui la critica rinnovata: “Fossero pure questi stati in apparenza largamente democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi. Loro compito precipuo tornerebbe ad essere, a più o meno breve scadenza, quello di convertire i loro popoli in eserciti. I generali tornerebbero a comandare, i monopolisti ad approfittare delle autarchie, i corpi burocratici a gonfiarsi, i preti a tener docili le masse. Tutte le conquiste del primo momento si raggrinzerebbero in un nulla di fronte alla necessità di prepararsi nuovamente alla guerra“.

Di qui, semplificando e riassumendo molto, la necessità di un’Europa federale, “il nuovo organismo che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un largo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, spazzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l’autonomia che consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli“. Quello, cioè, che FdI e gli alleati nazionalisti della Lega chiedono da sempre.

Un’Europa in cui “possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica“. Nel mirino di Spinelli, Rossi e Colorni ci sono anche i comunisti, quindi, affetti da una “assidua dipendenza allo stato russo, che li ha ripetutamente adoperati senza scrupoli per il perseguimento della sua politica nazionale, impedisce loro di perseguire una politica con un minimo di continuità”. Per questo “una situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo non in senso rivoluzionario, ma già il fallimento del rinnovamento europeo“. Un ragionamento articolato dal quale Meloni ha scelto di estrapolare poche frasi sulla proprietà privata dal contesto e usarle come clava nella battaglia politica. Con l’effetto di portare l’Italia sulla sponda di quegli Stati membri che da anni picconano le istituzioni europee a ogni pie’ sospinto, come l’Ungheria.

A Giorgia Meloni e a Fratelli d’Italia il Manifesto di Ventotene non piace. Dice, la presidente del Consiglio, perché teorizza una rivoluzione “socialista” per l’Europa che uscirà in macerie dalla seconda guerra mondiale. Ma, a parte l’estrema semplificazione a fini politici di un testo estremamente complesso, forse non è solo per questo. Il documento, redatto […]

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