Musica

“Di Napoli si fa una narrazione pericolosa che rende accattivante il disagio, ora basta”: lo sfogo de La Niña

La cantautrice presenta a FqMagazine il nuovo album “Furèsta”: "In napoletano è un aggettivo che viene usato per riferirsi soprattutto alle gatte, e vuol dire 'selvatico', 'indomabile'"

di Emanuele Corbo
“Di Napoli si fa una narrazione pericolosa che rende accattivante il disagio, ora basta”: lo sfogo de La Niña

Una visione che mescola innovazione e heritage, senza mai perdere il profondo legame con la cultura e l’identità di Napoli. La Niña torna con un nuovo album, “Furèsta”, in uscita il 21 marzo per BMG, che affonda le radici nella tradizione della musica popolare napoletana e si fa portavoce di urgenze collettive in composizioni sonore ricercate ed evocative. La cantautrice, musicista e performer partenopea – vero nome Carola Moccia – presenta a FqMagazine il suo secondo disco, il cui orizzonte, pur partendo dall’essenza della città, si perde ben oltre quei confini.

Che “furèsta” è quella del titolo?
In realtà non è una foresta. In napoletano è un aggettivo che viene usato per riferirsi soprattutto alle gatte, e vuol dire “selvatico”, “indomabile”. Mia mamma lo ha sempre detto di tutte le gattine che abbiamo avuto da quando ero piccola. Volevo qualcosa che evocasse la terra ma che descrivesse anche la natura ribelle del disco.

Descrive pure te?
Assolutamente! Sicuramente sono una “furèsta” addomesticata, nel senso che sono molto casalinga e amo stare a casa, ma dentro sono molto selvatica e ribelle.

Che cosa ti sta proprio stretto?
Gli stereotipi in generale, tutto ciò che voglia ridurre la mia carriera o la mia persona a degli aggettivi. Chiunque cerchi di definirmi mi offende a tratti, è una cosa che ho sempre sofferto. Penso che nessuno sia definibile con un aggettivo o una frase.

A proposito di stereotipi, qual è la situazione delle donne nella musica?
È identica in tutti i campi. I problemi sono legati alla visione ancora molto monolitica della donna. Non ne usciamo. Si fanno 300 passi avanti e 1000 indietro. Lo dimostrano le misure politiche in Stati come Iraq e Iran, e la recente rivolta delle donne iraniane. Nel 2025 non si dovrebbe neanche parlare di donne come una sfera di significato a sé, invece è così ed è molto triste. C’è tanto da fare, e secondo me chiunque faccia arte in questo momento fa politica, nel senso che è importante responsabilizzarsi come esseri umani nei confronti di queste tematiche e fare qualcosa soprattutto se le si sente proprie.

Invece per le cantautrici in Italia che periodo è?
Parlando di me vedo luce. Sono molto felice dell’accoglienza riservata a questo disco ancora prima della sua uscita. Con i miei lavori precedenti non avevo mai avuto così tanto calore dal pubblico di tutto il mondo. Sto parlando a persone che mi scrivono da ogni luogo: Egitto, Messico, Turchia.

Quindi non c’è pericolo che il dialetto ingabbi il tuo messaggio rendendolo accessibile solo a chi lo comprende?
No, anzi penso che il napoletano sia la mia arma vincente. È una lingua che riflette tutte le dominazioni che Napoli ha avuto nei secoli. È evocativa: ogni parola è fortemente onomatopeica e va oltre il significato. Questo mi permette di essere molto più potente, a livello semantico, di chi usa la lingua italiana. Mi sento fortunata ad avere questo tesoro fra le mani e quello che è successo con i primi assaggi del disco è una prova: le persone hanno perfettamente capito cosa volessi dire.

Se il tuo messaggio non passa solo dalla parola, in cos’altro risiede?
Ho fatto una ricerca musicale molto intensa andando indietro fino a un luogo della mia cultura un po’ inesplorato, quello delle villanelle, delle moresche e di tutte quelle opere quattro/cinquecentesche che nascevano principalmente nelle campagne e che col tempo sono diventate opere teatrali. Avevo bisogno di andare a fondo di certe questioni anche sociali e capire come risuonassero tra la gente.

Ascoltando l’album, la prima sensazione è di essere di fronte a un lavoro di etnomusicologia.
Ci hai preso in pieno. A tal proposito una mia fan etnomusicologa mi ha fatto scoprire che Mozart si è ispirato per le sue composizioni a delle villanelle ottocentesche napoletane, quindi a opere anonime che non sapremo mai di chi sono eppure si sono diffuse nel tempo, chissà come! Lo trovo commovente.

L’impianto del disco è corale: che significato ha questa pluralità di voci?
Volevo uscire dall’individualismo della musica che stavo facendo e connettermi con le esigenze della gente, sentire un sentimento più collettivo del mio. Per fare questo, sperando che i messaggi che io ritenevo urgenti fossero condivisi, l’unico modo era coinvolgere altre voci anche per sentire meno il peso delle tematiche così profonde che affronto nel disco. Volevo che ci fosse meno l’artista e più la musica.

La Napoli di oggi è la stessa di quando eri bambina?
È incredibile come per tanti aspetti Napoli sia rimasta identica, come ancora odori di anni ’90: i trasporti, l’attitudine delle persone, i negozi, ma allo stesso tempo è mutata tanto. Adesso i napoletani hanno una consapevolezza del proprio valore a livello di narrazione artistica molto più forte di prima, quando si era un po’ naïf perché – come in tutto il sud del mondo – non si era ancora sperimentata la glamourizzazione di certe tematiche e disagi.

Oggi che cosa la consuma e la impoverisce?
Quello che succede a Napoli è il riflesso di quello che accade in Italia: un Paese che viene da un trentennio fascista, dove si cerca di abbassare il più possibile il livello culturale in modo da abolire il pensiero critico. Il popolo si ritrova a essere stereotipato e sfruttato per campagne pubblicitarie di qualsivoglia brand, alimentando però una narrazione pericolosissima che rende cool e accattivante il disagio. Anche basta, c’è bisogno di capovolgere questa narrazione.

Ascoltando “Tremm’”, composizione ispirata al bradisismo di Pozzuoli, è impossibile non pensare a quel che sta accadendo ai Campi Flegrei. Come ti poni davanti a questi eventi?
C’è un saggio di Vito Teti, “La restanza”, che parla della tendenza a rimanere nei luoghi minacciati dalla natura. Io ho sviluppato una dipendenza (non so se sana o malsana) da questo senso di precarietà che mi fa sentire molto viva. Mi fa stare bene ricordarmi del potere della natura tutti i giorni, ridimensiona il mio ego però mi gonfia la creatività. Mi vivo bene questa cosa, mentirei se dicessi che sono impaurita o che non vedo l’ora di andarmene.

In “Mammama’” invece rifletti sul fatto che le parole sanno essere pericolose…
Le parole sono un’arma potentissima che ho visto sedimentare anche dentro di me negli anni, e vedere come hanno condizionato il mio comportamento mi ha veramente inquietata. Per questo ho dedicato per la prima volta una canzone al potere delle parole, anche di una parola come “Mammama’” che trovo meravigliosa perché è un’esortazione a smetterla, a liberarsi dal peso del giudizio altrui, oltre al fatto che c’è la parola “mamma dentro”: trovo molto poetica questa connessione con la madre in un momento di sfogo.

Dopo essere stata ospite di BigMama nella serata delle cover nel 2024, ora saresti pronta per Sanremo, o meglio Sanremo sarebbe pronto per te?
Onestamente sono pronta per ogni palco. Sanremo non è mai stato un obbiettivo, non è qualcosa che rincorro. È anche un’entità che non ho mai capito bene cosa sia e cosa rappresenti perché è specchio di tante cose, pure della situazione politica del Paese, quindi andiamo a capire se è il mio posto, boh, non lo darei per scontato.

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