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Negli Usa di Trump la prima sentenza contro le eco-proteste: Greenpeace deve dare 660 milioni alla società petrolifera

L'organizzazione ambientalista condannata a pagare il doppio rispetto alla richiesta dell'accusa. Una decisione che rappresenta un precedente pericolosissimo per la sopravvivenza dell'attivismo
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Una sentenza che pesa come un macigno sul futuro di Greenpeace negli Stati Uniti, che rischia la bancarotta. Una giuria della Contea di Morton, nel Nord Dakota, ha condannato la ong al pagamento di oltre 660 milioni di dollari. Il verdetto è stato emesso nell’ambito della causa intentata dalla compagnia Energy Transfer contro Greenpeace International, Greenpeace Usa e il braccio finanziario Greenpeace Fund Inc. per aver causato centinaia di milioni di dollari di danni attraverso una campagna “di violenza e diffamazione” contro la costruzione del Dakota Access. Si tratta dell’oleodotto gestito dalla Energy Transfer, contro il quale ormai quasi un decennio fa la tribù Sioux di Standing Rock aveva guidato una delle più grandi proteste anti-combustibili fossili nella storia degli Stati Uniti. Una battaglia inizialmente locale e presto diventata internazionale, nonché un braccio di ferro tra Obama e Trump, da sempre favorevole a quei 1.900 chilometri, strategici per trasportare petrolio dai giacimenti di Bakken fino all’Iowa. La compagnia ha accusato la ong, che era scesa in campo in difesa dei diritti degli indigeni, di diffamazione, violazione di domicilio, cospirazione civile e altri reati.

Se cambia il vento – La condanna della giuria, composta da nove membri, è anche più alta della richiesta iniziale della compagnia, di 300 milioni di dollari, già molto alta. E arriva in un clima molto cambiato negli Stati Uniti, dopo l’insediamento di Trump. Anche per il Nord Dakota: a fine gennaio 2025 – con 79 sì (tra cui 26 democratici, ossia la maggioranza del partito) e 18 no – il Senato americano ha confermato l’ex governatore dello Stato Doug Burgum, come segretario dell’Interior Department dell’amministrazione Trump. Significa pieno potere sulle risorse naturali e controllo del Bureau of indian affairs, ente che gestisce i territori destinati alle popolazioni dei nativi americani, di cui fa parte anche la riserva Standing Rock. D’altronde Burgum ha subito promesso di aprire più aree per la produzione di petrolio, gas naturale e carbone.

Una storia lunga quasi un decennio – Il caso dell’oleodotto si aggiunge ai tanti ‘contenziosi’ tra Barack Obama (che ne aveva bloccato la realizzazione) e Trump. Dalla parte dei Sioux, rimasti accampati per un anno, si erano schierati almeno duemila veterani, mentre uno dei leader della protesta è stato Dave Archambault II, il capo sioux di Standing Rock, che aveva chiesto aiuto proprio a Barack Obama e all’Onu. La Energy Transfer ha fatto ricorso diverse volte. A gennaio 2017, Trump aveva firmato un decreto per la ripresa della realizzazione del Dakota Access con la conseguente resa della tribù di Sioux. A luglio 2020, però, il giudice federale James Boasberg, della corte distrettuale del District of Columbia, aveva disposto la chiusura temporanea del cantiere per la costruzione del maxi oleodotto di quasi duemila chilometri. E nel 2020, la Corte Suprema aveva respinto un ricorso della compagnia, sostenendo che fosse necessaria una nuova valutazione d’impatto ambientale. Nel frattempo, però, l’oleodotto ha continuato a trasportare petrolio.

Greenpeace Usa rischia la bancarotta – Secondo l’organizzazione non governativa le azioni legali di Energy Transfer “sono chiari esempi di Slapp (Strategic lawsuit against public participation), cause temerarie intentate per bloccare gli attivisti e le organizzazioni non profit impegnate nella difesa dell’ambiente con ingenti spese legali, nel tentativo di portarle al fallimento economico e, in ultima analisi, di mettere a tacere ogni dissenso”. La compagnia accusa dal 2017 l’ong di aver orchestrato la protesta guidata dagli indigeni. Già prima del verdetto Deepa Padmanabha, consulente legale di Greenpeace Usa, aveva spiegato quali fossero i rischi: “Al di là delle ripercussioni che questa causa potrebbe avere su Greenpeace negli Stati Uniti, uno degli aspetti più preoccupanti di questo caso giudiziario è che potrebbe stabilire nuovi pericolosi precedenti legali e consentire di incolpare chiunque partecipi a una protesta per le azioni commesse da altri”. Dopo la sentenza, l’avvocata ha annunciato il ricorso: “La lotta non è finita”. E Greenpeace, che ha sede in Olanda, vorrebbe che la lotta continuasse nelle aule europee, dove c’è una normativa contro le Slapp. In risposta a quella di Energy Transfer negli Stati Uniti, nel febbraio 2024, Greenpeace International ha deciso di ricorrere per la prima volta alla nuova Direttiva contro le cause temerarie dell’Unione europea, presentando a sua volta una causa presso un tribunale olandese contro la compagnia statunitense di oleodotti Energy Transfer. E ha chiesto il risarcimento di tutti i danni e i costi subiti per via delle cause intentate dalla compagnia. “Energy Transfer non ha scritto l’ultima parola su di noi in questa battaglia, abbiamo appena iniziato la nostra azione legale anti-Slapp contro i suoi attacchi alla libertà di parola e alle proteste pacifiche. Porteremo Energy Transfer in tribunale a luglio nei Paesi Bassi. Non ci fermeremo” ha raccontato Kristin Casper, consigliere generale di Greenpeace International.

Il clima di tensione e le altre slapp – Nel frattempo, però, questa vicenda ha creato molte tensioni. Come raccontato in queste ore dal New York Times, se all’inizio del 2023, l’organizzazione ha celebrato la nomina a direttore esecutivo di Greenpeace Usa di Ebony Twilley Martin “la prima donna di colore a essere l’unico direttore di un’organizzazione non-profit ambientale statunitense”, lei ha lasciato quel ruolo dopo appena 16 mesi, a quanto pare proprio per “disaccordi sull’opportunità o meno di accettare un accordo con Energy Transfer”. Anche le grandi compagnie petrolifere Shell, TotalEnergies ed Eni negli ultimi anni hanno lanciato Slapp contro diverse realtà di Greenpeace. “Un paio di questi casi sono stati fermati con successo. Tra questi, nel 2024 – racconta la ong – Greenpeace France ha avuto la meglio in quella intentata da TotalEnergies, mentre Greenpeace Uk e Greenpeace International hanno costretto Shell a rinunciare alla sua causa temeraria”. In Italia, la causa intentata da Eni nei confronti di Greenpeace Italia e ReCommon arriverà in tribunale nei prossimi mesi.

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