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Reddito di cittadinanza, Consulta: “Sfavoriti gli stranieri? Giustificato”. Ma il requisito di residenza va ridotto

"Dichiarata incostituzionale una norma che per anni ha vessato tante persone in oggettivo stato di indigenza, escluse per un requisito che, finalmente, sappiamo essere illegittimo", commenta l'avvocato Alberto Guariso
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Il Reddito di cittadinanza (Rdc) – abrogato a decorrere dal 1° gennaio 2024 – non ha natura assistenziale, non essendo diretto “a soddisfare un bisogno primario dell’individuo”: si tratta, infatti, di una misura di politica attiva per l’occupazione, di carattere temporaneo, soggetta a precisi obblighi e soprattutto a rigide condizionalità che, se disattese, determinano il venir meno del diritto alla prestazione. È quanto ha ribadito la Corte costituzionale, nella sentenza numero 31, depositata giovedì 20 marzo, che decide così del rinvio pregiudiziale nato da una causa civile tra l’Inps e 6 cittadini stranieri comunitari davanti alla Corte d’appello di Milano, sezione lavoro. Al centro, la possibile discriminazione derivante dal requisito dei 10 anni di residenza in Italia, previsto dalla normativa sul Rdc, il decreto legge n. 4 del 28 gennaio 2019. La questione di legittimità costituzionale era stata quindi sollevata dal giudice in merito all’art 2 del decreto, anche in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e 7 paragrafo 2, del regolamento Ue 492/2011 sulla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione.

La Corte ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2)” del decreto 4/2019, “nella parte in cui prevedeva che il beneficiario del reddito di cittadinanza dovesse essere residente in Italia «per almeno 10 anni», anziché prevedere «per almeno 5 anni”, come è poi stato previsto per l’Assegno di inclusione, la misura introdotta dal governo Meloni nel 2024 per sostituire il Rdc. “E’ stata dichiarata incostituzionale una norma che per anni ha vessato tante persone in oggettivo stato di indigenza, con i requisiti economici per accedere al sussidio e invece escluse per un requisito che oggi, finalmente, sappiamo essere illegittimo”, è il commento dell’avvocato Alberto Guariso, legale dei cittadini comunitari che si erano visti togliere la prestazione e richiedere dall’Inps la restituzione delle somme. “Non va dimenticato che l’applicazione di quel requisito incostituzionale ha portato anche a procedimenti penali, a carico di persone che invece avevano assoluto bisogno di sostegno”, aggiunge, accogliendo con soddisfazione la decisione.

Ma non è tutto. Perché la Consulta ha invece deciso di dichiarare “inammissibili le questioni di legittimità costituzionale” relative all’ipotesi che ad essere discriminatorio fosse il requisito della residenza in sé. Una decisione presa alla luce della recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 29 luglio 2024 che, dice la Consulta, “non è d’ostacolo”. La Corte di giustizia europea aveva dichiarato discriminatorio nei confronti degli stranieri il requisito dei 10 anni di residenza per l’accesso al Rdc, in particolare dei cittadini di Paesi terzi. Secondo i giudici europei, il requisito viola la direttiva 2003/109/CE, che garantisce uguali diritti ai residenti di lungo periodo, e può impedire loro di accedere a prestazioni sociali, contrastando così con la Carta dei diritti fondamentali Ue. Secondo la Corte costituzionale, però, “in tale pronuncia la Corte di giustizia, come di consueto, ha interpretato il diritto dell’Unione – notano i giudici costituzionali – ma non ha operato un sindacato sull’esattezza, o no, dell’interpretazione del diritto nazionale, quale offerta dal giudice del rinvio pregiudiziale”, che invece aveva ritenuto la natura assistenziale del Rdc. Del resto, “se è indiscutibile che alla Corte di giustizia spetta l’interpretazione dei trattati e del diritto derivato, al fine di assicurarne l’uniforme applicazione in tutti gli Stati membri, è parimenti indiscutibile che l’interpretazione della Costituzione è riservata a questa Corte”.

La sentenza ha quindi precisato che non può essere accolta la questione di legittimità prospettata in via principale dal giudice che ha presentato il ricorso, che porterebbe, in sostanza, ad annullare completamente il requisito di radicamento territoriale in base alla residenza, rendendo sufficiente solo quello, per i cittadini degli Stati membri, del diritto di soggiorno. Non trattandosi di una prestazione meramente assistenziale, un requisito di radicamento territoriale non determina, di per sé, una violazione del divieto di discriminazione indiretta e delle relative disposizioni del diritto dell’Unione, che pure vengono in considerazione nella questione in esame. “Per quanto un tale requisito ponga di fatto il cittadino italiano in una posizione più favorevole, non di meno la discriminazione indiretta ben può ritenersi giustificata quando sussistono ragioni che la rendono necessaria e proporzionata“.

Tuttavia, nonostante tali considerazioni, il periodo di residenza decennale pone una barriera temporale all’accesso al Rdc che trascende la ragionevole correlazione con le finalità di quest’ultimo. A differenza di altre misure, come l’assegno sociale che questa Corte ha ritenuto correlate allo “stabile inserimento dello straniero in Italia, nel senso che la Repubblica con esse ne riconosce e valorizza il concorso al progresso della società, grazie alla partecipazione alla vita di essa in un apprezzabile arco di tempo”, il progetto di inclusione previsto dal Rdc non guarda, come invece le suddette misure, al concorso realizzato nel passato, ma alle chances dell’integrazione futura. In quest’ottica, il gravoso termine del pregresso periodo decennale non appare ragionevolmente correlato alla funzionalità del Rdc e si pone in violazione dei principi di eguaglianza, di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’articolo 3 della Costituzione. La ragionevole correlazione con la misura del Rdc si realizza, invece, sostituendo il termine decennale con quello di cinque anni, che si presenta, per diverse ragioni, “come una grandezza pre-data idonea a costituire un punto di riferimento presente nell’ordinamento”.

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