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Scandalo Huawei all’Europarlamento: passino le mele marce, ma il sistema è debole

LOBBY - Gli esperti considerano l’assenza di regole sui cosiddetti 'side job' come l’anticamera di ogni potenziale conflitto di interessi
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di Federico Anghelé, direttore The Good Lobby

A due anni di distanza dal Qatargate, il Parlamento europeo rischia di essere scosso da un nuovo scandalo con al centro alcuni lobbisti accusati di riciclaggio, associazione a delinquere e corruzione di almeno 15 europarlamentari dei quali non conosciamo ancora i nomi. La presunta corruzione non sarebbe a favore di uno Stato ma, questa volta, del potente gigante delle telecomunicazioni cinese Huawei, che, come tutte le grandi aziende globali, ha stabilito nella capitale dell’Unione Europea un proprio ufficio dedicato ad attività di lobbying.

Questa vicenda certifica infatti l’importanza di Bruxelles quale centro politico mondiale, secondo solo a Washington per presenza di rappresentanze istituzionali di associazioni di categoria, aziende più o meno grandi, organizzazioni non governative, studi legali e società di consulenza.

A dimostrarlo sono i numeri: il registro della trasparenza, a cui devono iscriversi tutti coloro che intendano influenzare le politiche europee (ad esempio attraverso incontri diretti con gli europarlamentari e gli alti funzionari della Commissione) conta più di 12.000 voci, di cui quasi 900 italiane. Va da sé che a fronte di un alto tasso di professionisti che agiscono attenendosi alle regole in materia di lobbying rese più rigide in risposta al Qatargate, non si possono escludere le classiche mele marce, pronte a facilitare un dossier attraverso comportamenti e azioni non esattamente ortodosse, talvolta al limite della rilevanza penale.

E tuttavia, queste mele marce ben sanno che – sebbene l’asticella dell’integrità sia stata alzata dopo lo scandalo che nel 2022 ha travolto il Parlamento di Bruxelles – non mancano le possibili scappatoie, a partire dai controlli, giudicati del tutto insufficienti. In risposta al Qatargate la presidente Metsola aveva proposte 14 misure volte a rafforzare la trasparenza, a prevenire i conflitti di interessi, a promuovere l’integrità nel Parlamento, misure che, però, sono state solo parzialmente approvate da Strasburgo.

Per esempio, il Parlamento non si è dotato di regole chiare in materia di doni e favori, che gli eurodeputati non sono tenuti né a rifiutare né a dichiarare. Non a caso, secondo le indagini delle ultime settimane, i lobbisti di Huawei avrebbero elargito con generosità ad alcuni eurodeputati telefoni e altri regali di valore, ma anche biglietti per partite di calcio, viaggi.

Non meno problematico, poi, è il mancato divieto per gli eurodeputati di esercitare attività professionali parallele al mandato parlamentare. Le stime indicano che circa un quarto dei 720 parlamentari nella scorsa legislatura continuavano a svolgere il loro incarico professionale, o sedevano nei consigli di amministrazione e di indirizzo di aziende e organizzazioni, o, in ogni caso, erano liberi di ottenere incarichi di consulenza o di altra natura senza avere l’obbligo di renderli pubblici. E’ vero che nel frattempo l’Europarlamento ha votato un provvedimento secondo il quale i deputati dovrebbero dichiarare tutte le attività remunerate, “regolari” o “occasionali”, se queste superano i 5.000 euro. Ma sembra che la misura sia ad oggi ampiamente disattesa.

E, più in generale, gli esperti considerano l’assenza di regole sui cosiddetti side job come l’anticamera di ogni potenziale conflitto di interessi, rischio reso ancor più concreto dall’eventualità che aziende o società di consulenza promettano agli europarlamentari lucrosi incarichi una volta cessato il loro mandato. Questo perché i provvedimenti per contrastare le cosiddette porte girevoli sono molto deboli: se il “pacchetto Metsola” prevedeva un periodo di raffreddamento post mandato di 12 mesi, il Parlamento lo ha poi abbassato a 6. Rendendola più che altro una norma simbolica di scarsa efficacia.

Se, quindi, molte delle misure previste dalla riforma Metsola sono rimaste nel limbo, altre, effettivamente introdotte, rimangono per lo più sulla carta anche a causa dell’assenza di un’autorità indipendente dotata di reali poteri di verifica e controllo, in grado di valutare situazioni a rischio e di comminare le opportune sanzioni. Senza l’entrata in servizio del cosiddetto “organismo etico”, autonomo rispetto alle tre principali istituzioni europee, lobbisti e parlamentari senza scrupoli continueranno a interpretare a loro vantaggio o a violare un quadro regolatorio in divenire e non privo di buchi, giocando su una sostanziale impunità.

Tuttavia non va dimenticato che, pur con tutti i suoi limiti, il regime in materia di integrità e trasparenza delle istituzioni europee rimane all’avanguardia rispetto all’apparato regolatorio presente nella maggior parte degli Stati membri (a cominciare dall’Italia). E, per di più, ha evidenziato una certa capacità di autoriforma anche a seguito di crisi e scandali. Se, infatti, il Qatargate ha portato all’introduzione di nuove misure fortemente volute dalla presidente Metsola, lo scorso autunno la Commissione europea ha alzato a oltre 1500 il numero di dirigenti obbligati a pubblicare online i loro incontri con i lobbisti, garantendo di fatto una maggiore tracciabilità delle relazioni tra i portatori di interessi e tutti quei policy maker che, a vario titolo, sono coinvolti nella lunga filiera delle decisioni pubbliche europee.

A conferma che il quadro di regole europee sulla trasparenza (che prevedono il più popolato registro dei portatori di interessi al mondo) continua a rappresentare un punto di riferimento a livello internazionale a cui spesso attingono le istituzioni nazionali quando intendono introdurre misure volte a rafforzare l’integrità pubblica.

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