Dovremmo metterci d’accordo subito. E decidere se Berlino, Estate ‘42 di Andreas Dresen – in sala dal 20 marzo grazie a Teodora – è il biopic su una sconosciuta antinazista mite e determinata (Hilde Coppi) o il ritratto a larghe pennellate di una generazione resistenziale comune contro la barbarie nazista (il gruppo Schulze-Boysen-Harnack). In entrambi i casi il film di Dresen è un lavoro di estremo pregio formale e di straziante sentita umanità.
Noi propendiamo per la prima versione, quella biografica, avviluppata attorno al viso sacrificale dreyeriano di una sublime Liv Lisa Fries nei panni della 33enne Hilde, berlinese, comunista, che dal 1935, dopo aver conosciuto, amato e sposato Hans Coppi, combatté il nazismo tra volantinaggio, affissione di manifesti, supporto per trasmissioni radio con l’Unione Sovietica, infine accogliendo un soldato spia russo.
Berlino, Estate ’42 inizia col dettaglio di una mano di Hilde che raccoglie una fragola (e si chiuderà con i primi piani di lei e del marito sorridenti mentre ballano) dall’orto di una casa di campagna. Pochi fotogrammi bucolici e una macchina della Gestapo frena sulla ghiaia. Hilde viene arrestata. È il 12 settembre del 1942. Lo stesso giorno farà la stessa fine anche Hans. Hilde è incinta. Partorirà in carcere a novembre, avrà la fortuna di poter allattare e vivere con il proprio figlio per alcuni mesi, fino a quando condannata a morte per alto tradimento, rifiutata la grazia da Hitler in persona, verrà ghigliottinata nel carcere di Plotzensee alle porte di Berlino il 5 agosto del ’43.
Contrassegnato da una tesa, antispettacolare atmosfera semidocumentaristica, Berlino, Estate ’42 si sviluppa su un piano temporale gradualmente asfissiante e tragico di carcerazione e condanna a morte screziato da chiazze irregolari, non cronologiche e gioiose su alcuni stralci di vita tra Hilde e Hans, tra Hilde e i compagni della Resistenza, che sono accaduti nel lustro precedente la fatale prigionia. Non c’è musica di accompagnamento, ma a sonorizzare con calore la narrazione ci sono lampi di sole che entrano nella quotidianità di ragazzi qualunque ripresi felici a bordo lago, su un prato, a tavola per pranzare, prima di affiggere volantini o lanciare segnali Morse.
Mentre il bordone del presente, inchiodato ad un grigio verde spento del carcere, è lo sfondo crudele e sadico del conto alla rovescia della morte della protagonista. Spesso Dresen opta per compunti densi piani sequenza, non ricatta moralmente lo spettatore (i nazisti sono aberranti ma non machiettistici), offre in uno slancio di purissimo e incontaminato realismo perfino l’insostenibile esecuzione della protagonista. È un cinema sobrio, calibrato e rispettoso di ciò che racconta e trasmette, quello di Dresen.
A partire da Hilde, minuta e volitiva neomamma all’ombra del patibolo, capace di consolare tutti senza risultare patetica, che pare essere attraversata per alcuni istanti decisivi dal dolore profondo e ancestrale di una madre come una protagonista di diversi film di Ken Loach. I rari, misconosciuti e volontariamente a lungo taciuti episodi di resistenza antinazista definiti dalla Gestapo come la cosiddetta “Orchestra rossa” sono stati occultati alle masse tedesche occidentali fino agli anni settanta in quanto i resistenti erano perlopiù comunisti, orientati e in contatto con l’URSS. Il sessantenne Dresen che proviene dalla Turingia, quindi dalla ex Germania Est, ha come provato a scostare l’alone di propaganda eroica (ma più attinente al vero) che su queste ragazze e ragazzi ammazzati dai nazisti è pesata nelle rievocazioni storiche delle autorità sovietiche nel tempo. Ponendo Hilde, Hans, Harro, Libertas, ecc… sul formato del grande schermo: esistenze normali, qualunque, la cui etica, passione, giustizia sociale riprende finalmente a vivere.