Elizabeth Jennings, gli istanti del buio (Traduzione di Silvio Raffo)

Il nome di Elizabeth Jennings, in Italia scarsamente conosciuto, gode in Inghilterra di una indiscussa popolarità già dagli anni Cinquanta. È l’unica voce femminile, infatti, che Robert Conquest inserisce in un’antologia che farà epoca, la New Lines del 1956, a fianco dei più noti poeti “innovatori” che costituiscono il mitico “Movement”: Philip Larkin, Kingsley Amis, Thom Gunn, Donald Davie – con la differenza che l’etichetta di tendenza del gruppo si addice alla sua poetica solo parzialmente: è vero che nei versi della Jennings il ‘raziocinare’ argomentativo è sempre improntato a una logica infallibile e il suo fraseggio è generalmente alieno dalla tentazione della sublimità (sono queste le caratteristiche più evidenti e programmatiche del “Movement”); ma è altrettanto vero che la più intima essenza della sua poetica resta di qualità squisitamente sentimentale e sotto l’apparente prosaicità del ritmo occhieggia, o sarebbe meglio dire “serpeggia”, un lirismo delicato e struggente.
Come fa notare R. Stevenson in una pagina dell’Oxford English Literary History, mentre i poeti succitati lavorano a una sempre più asciutta puntualizzazione del dato oggettivo al fine di eliminare ogni concessione a voli pindarici o slanci emotivi, la Jennings persegue invece la strada ben più ardua di chi vuol combinare il “reale” nei suoi minimi dettagli al “sentire” individuale sfruttando al massimo grado sia la potenzialità (passiva) di suggestione-suggerimento del primo sia l’acume della penetrazione (attiva) dell’intelletto che, appunto, continua a “leggere-dentro” e oltre le apparenze contingenti senza rinunciare al conforto della bellezza.
S. R.
***
POETA MODERNO
Non è il momento adatto a modi dolci
né a sentenze solenni, o astrusi orpelli,
immagini forbite o giochi ameni,
compiaciute malìe sentimentali.
Scriviamo in un’età di fame insonne –
travi di ferro, cuori tesi a piombo –
parola, non più canto è l’arte del poeta
e l’armonia deve mutarsi in rabbia.
OSCURITÀ
Acqua a rovesci e un buio
vento che la trascina.
Ma – come so che è buio?
Posso solo supporre un affollato
mondo oltre il quadro della mia finestra
e creature selvagge – anche in città –
affannate in oscure ignote brame.
Anch’io – che buio non so diventare
né concedermi un sonno artificiale –
sto qui sveglia a pensare.
“Io col pensiero il mondo so abbracciare”.
Come una coppa entro cui nasce un fiore
tengo in un cerchio aperte le mie dita.
Aspetta. Aspetta. Presto – lentamente,
e oscuramente
un fiore nascerà,
dall’erba una creatura spunterà,
dall’edera, dal vuoto: da sé fuori
dolce la terra la libererà.
Occhi eccitati, petali tremanti
aspetteranno il mondo per scoprirlo.
Anch’io giaccio ed aspetto che dal buio
qualcosa appaghi gli occhi spalancati.
Sulla lampada batte una falena.
Quanti spasimi, e sforzi disperati.
Ed io qui con le dita aperte a coppa
qualche sollievo invoco alla mia insonnia.
Qualcuno, forse, aspetto. Ho già sgombrato
la terra dal mio capo. Aspetto, all’erta.
CACCIA
Tutta la notte cacciatori nel buio,
dottori, pazienti, infermiere, bambini, uccelli.
In foreste reali alcuni volano,
altri si muovono in discorsi e sogni.
Ma tutti a caccia, con trappole e armi,
esperti ormai del loro sport – di certo
per alcuni non è uno sport ma vita:
per gli uccelli, ad esempio, ed i bambini.
Cosa accadrà alla fine? Gli avversari
si fisseranno, gli occhi fermi e lieti?
Nodi, pietre, pallottole, parole,
cupi sogni, bastate a una sconfitta?
IL CERCHIO
Il cerchio chiude – e noi
noi siamo chiusi dentro.
Qualcosa di completo, che non urta
nulla che gli sia ignoto,
che è sempre dell’identica misura,
mentre noi soli (accovacciati al centro)
ci allarghiamo e stringiamo,
amiamo o proviamo paura.
Tutti i mondi di nostra conoscenza
sono cerchi per noi, che ci completano.
Siano rotondi o piatti
non ha importanza: son la nostra idea
di sicurezza, sì, di eternità.
Di tutti i nostri aforismi
Il solo vero
sembra proprio questo:
è l’infinito la nostra dimora.
LUCE
Previsto era il contatto
fra l’una e l’altra vita;
più tardi pronunciammo la parola,
sentimmo l’amore arrivare
ed i nemici andarsene.
Un po’ in disparte eravamo
(ancora consapevoli, coscienti)
Mutò la luce, cambiò direzione.
Oh lentamente, sì, salì la luce
e ci mostrò una stella
e noi – ecco – la tenebra eravamo.
***
Elizabeth Jennings è nata il 18 luglio 1926 a Boston, nel Lincolnshire (Inghilterra) e morta il 26 ottobre 2001 a Bampton, nell’Oxfordshire. Jennings ha studiato alla High School e al St. Anne’s College di Oxford. Il suo primo pamphlet, Poems, è apparso nel 1953, seguito da A Way of Looking (1955), che le ha fatto vincere un Somerset Maugham Award e le ha permesso di visitare l’Italia. Song for a Birth or a Death (1961) segnò un nuovo sviluppo, con il suo tono confessionale e una visione più selvaggia dell’amore. Alcune delle sue migliori poesie successive riguardano il suo esaurimento nervoso e le sue conseguenze, come quelle raccolte in Recoveries (1964) e The Mind Has Mountains (1966). Altre opere includono The Animals’ Arrival (1969), Lucidities (1970), Relationships (1972), Extending the Territory (1985) e Familiar Spirits (1994). Una traduzione, I sonetti di Michelangelo (1961), è stata rivista nel 1969. Ha pubblicato anche poesie per bambini. Nel 1992 Jennings è stata nominata Commander of the British Empire.