Perché la nuova Siria rischia già di disgregarsi

di Roberto Iannuzzi *
Sabato 15 marzo, migliaia di siriani sono scesi in piazza per celebrare la caduta del presidente Bashar al-Assad e commemorare il 14° anniversario dell’inizio della sanguinosa guerra che dal 2011 ha insanguinato il paese.
Sono trascorsi poco più di tre mesi dall’inaspettato crollo del regime, e già diversi segnali indicano che il paese, invece di procedere verso una progressiva stabilizzazione, potrebbe andare incontro a una nuova fase di disgregazione. Solo pochi giorni prima delle commemorazioni di sabato scorso, scontri fra uomini leali al vecchio regime e le forze di sicurezza del governo di transizione erano sfociati in un’ondata di violenza che ha lasciato sul terreno almeno un migliaio di morti (1.500 secondo alcune fonti).
Il maggior numero di vittime è risultato composto da civili appartenenti alla minoranza alawita, dalla quale proveniva il deposto presidente Assad, in gran parte trucidati a sangue freddo dalle milizie affiliate all’attuale governo.
Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha espresso “grave preoccupazione” in particolare per i jihadisti stranieri presenti all’interno di queste milizie, i quali secondo testimonianze dirette hanno preso parte agli attacchi contro gli alawiti durante gli scontri armati dei giorni scorsi. Il 13 marzo, il presidente ad interim Ahmad al-Sharaa – già noto come Abu Muhammad al-Julani, leader di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), il gruppo islamista che ha rovesciato Assad – ha promulgato una costituzione provvisoria che tuttavia dovrebbe restare in vigore per ben cinque anni.
Sebbene essa sancisca nominalmente alcune libertà e l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, di fatto il potere rimane nelle mani di HTS e delle fazioni ad esso alleate. La minoranza alawita, nello specifico, è completamente esclusa dal governo. Ma anche altre minoranze hanno un ruolo del tutto marginale. Il parlamento provvisorio, che dovrà redigere la costituzione permanente, sarà nominato per due terzi da una commissione selezionata dal presidente, e per un terzo dal presidente stesso.
Il governo di transizione però non controlla il paese. Esso ha incorporato HTS e le altre milizie all’interno delle Forze della Sicurezza Interna e dell’Esercito Provvisorio. Ma la gerarchia e il controllo militare restano incerti. Vi sono poi gruppi armati, spesso composti da ex militari ed ex ufficiali, che sono fuori dal controllo del governo e restano legati al vecchio regime, soprattutto sulla costa.
E vi sono gruppi costituiti da civili che hanno preso le armi. Alcuni di essi sono fedeli al governo di transizione, mentre altri simpatizzano per il passato regime o per una radicale decentralizzazione della Siria. Questa situazione è presente in particolare nel sud del paese, dove sono emersi diversi gruppi locali, fra i quali spiccano quelli della comunità drusa.
Organizzati secondo clan tribali, pure i drusi sono frammentati. Alcuni sono fedeli al nuovo governo, altri preferiscono una Siria decentralizzata e federale, anche alla luce dei recenti massacri ai danni degli alawiti. Ma il nemico più minaccioso per al-Sharaa è un altro: Israele. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu si è persuaso che il nuovo esecutivo siriano mantenga l’ispirazione jihadista dei gruppi che l’hanno composto, ma soprattutto che sia un alleato chiave della Turchia, che Tel Aviv considera un pericoloso rivale regionale. Israele, che governa su alcune comunità druse nel Golan occupato, si è perciò autoproclamato difensore dei drusi siriani e ha chiesto la demilitarizzazione del paese a sud di Damasco, oltre ad appoggiare tacitamente i curdi nelle regioni siriane nordorientali.
La presa di posizione di Tel Aviv ha suscitato accese proteste fra i drusi della Siria, ma alcuni hanno simpatizzato con lo Stato ebraico. Tamir Hayman, ex capo dell’intelligence militare di Israele e attualmente membro di un importante think tank israeliano, ha dichiarato alla radio dell’esercito che il caos in Siria beneficia Tel Aviv.
Il governo Netanyahu sta esercitando pressioni su Washington affinché mantenga la Siria “debole e decentralizzata”, e consenta alla Russia di conservare le proprie basi nel paese come contrappeso all’influenza turca. L’amministrazione Trump sembra però avere altri progetti in Siria, avendo mediato il recente accordo per integrare le forze curde nel nuovo esercito di Damasco. L’intesa, accolta favorevolmente dalla Turchia, avvantaggerebbe Ankara, perché Israele non avrebbe modo di appoggiare i curdi in chiave antiturca se essi fossero integrati nello Stato siriano.
Ma l’accordo è molto fragile, e tutto da definire nei dettagli. Poco prima della firma, il comandante delle forze curde Mazloum Abdi aveva accolto positivamente la possibilità di un appoggio israeliano, suscitando le ire di Ankara.
Le contraddizioni interne al governo di transizione, l’emarginazione delle minoranze, la proliferazione dei gruppi armati, e la rivalità turco-israeliana, costituiscono altrettanti ingredienti potenzialmente in grado di destabilizzare la debole Siria post-Assad. Un’altra rivalità, quella fra Turchia e Iran, acuitasi dopo la caduta di Assad (importante alleato di Teheran), potrebbe dare la spallata finale qualora il governo iraniano, finora rimasto alla finestra, decidesse di sostenere i gruppi tuttora fedeli al vecchio regime.
*Autore del libro “Il 7 ottobre tra verità e propaganda. L’attacco di Hamas e i punti oscuri della narrazione israeliana” (2024).
Twitter: @riannuzziGPC
https://robertoiannuzzi.substack.com/