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Maxi stretta della Cina contro le truffe: ora chi risponde a un numero estero rischia il blocco dei conti

Nel 2024 risolti circa 40.000 casi per un totale di 67.000 sospettati consegnati alla giustizia. Quasi il 60% in più rispetto all'anno precedente
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Tutto comincia con una telefonata dal numero 96100 della hotline “allerta e dissuasione”. Poi la visita a casa della polizia e un lungo interrogatorio sui contatti con l’estero. Gli avvertimenti e il congelamento del conto bancario. Il governo di Pechino sta facendo l’impossibile per combattere le truffe telefoniche e online, piaga che affligge la Cina da tre decenni, diventata anche più insidiosa con l’espansione all’estero e l’emergere di tecnologie sempre più sofisticate a disposizione di bande criminali.

Secondo l’ultimo rapporto della Corte Suprema del Popolo, presentato al parlamento l’8 marzo, nel 2024 sono stati risolti circa 40.000 casi di frodi delle telecomunicazioni, per un totale di circa 67.000 sospettati consegnati alla giustizia. Quasi il 60% in più rispetto all’anno precedente. Le vittime hanno mediamente 37 anni, il 62% è nella fascia compresa tra i 18 e i 40 anni. Numeri ufficiali a parte, la portata reale del fenomeno potrebbe essere notevolmente maggiore. Molte persone, infatti, non sporgono denuncia per vergogna, trattandosi spesso di scam a sfondo sentimentale o sessuale, che cominciano con un abile corteggiamento e si concludono con l’invio di grandi somme di denaro. Tra i salvataggi più clamorosi figura quello dell’attore Wang Xing, scomparso a inizio gennaio in Thailandia e ritrovato in un centro per le truffe a Myawaddy, in Myanmar, dove era stato assoldato con l’inganno nel business delle scam.

La stretta delle autorità cinesi comincia nel 2021, quando il presidente Xi Jinping ordina di reprimere le frodi alla “fonte dei crimini, chiarendo anche le responsabilità che gli uffici competenti condividono durante il processo”. L’anno seguente una nuova Legge contro le truffe telefoniche e di internet attribuisce ampi poteri alla polizia nel monitoraggio dei movimenti sospetti di denaro, facendo uso dei big data e altre tecnologie. Ma le operazioni coinvolgono anche operatori telefonici, banche e aziende. La violazione dei regolamenti implica multe e la revoca delle licenze.

Da allora, la Cina sostiene di aver prevenuto la perdita di oltre 1,1 mila miliardi di yuan (circa 140 miliardi di dollari), sventando in anticipo le frodi. Lo ha fatto concertando una campagna di sensibilizzazione della popolazione, facendo leva sulla percezione diffusa che l’intrusione dello Stato nella vita privata dei cittadini sia tollerabile quando in gioco c’è la sicurezza personale. Diverse persone contattate da Bloomberg hanno raccontato di aver ricevuto telefonate delle autorità in piena notte per accertamenti, convocazioni in presenza e limitazioni sui servizi bancari. Il tutto solo per aver risposto a un numero telefonico estero. Perché è proprio oltremare l’epicentro delle truffe.

Come spiegano Mark Bo, Ivan Franceschini e Ling Li in Scam: Inside Southeast Asia’s Cybercrime Compounds (Verso Books, 2025), il fenomeno comincia negli anni ‘90 a Taiwan con la diffusione di finte lotterie via mail. Le vittime sono i cinesi della Cina continentale, le attività piccole e poco sofisticate. Ma in grado di mettere in difficoltà le autorità sulle due sponde dello Stretto. Poi, nei primi anni Duemila, il maggiore coordinamento tra la polizia taiwanese e cinese spinge il business delle frodi verso le Filippine e in Cambogia; paesi con condizioni economiche favorevoli, un’élite politica connivente e una fiorente industria del gioco d’azzardo. Ma è negli ultimissimi tempi che le frodi telefoniche e online diventano pervasive. Complice l’ascesa di tecnologie all’avanguardia, ma soprattutto l’insofferenza dei cinesi per il peggioramento dell’economia nazionale. Difficile resistere a (falsi) annunci di lavoro pagati benissimo. Tutto compreso: vitto, alloggio, e una via di fuga dalle ferree restrizioni sanitarie imposte da Pechino per fermare la pandemia.

Arrivati a questo punto le truffe sono molto di più: intrecciano il traffico di esseri umani e assumono scala industriale: la cabina di regia si è spostata all’interno di compound recintati. “Mini città” dotate di tutti i servizi o, per meglio dire, prigioni da cui è praticamente impossibile scappare.

La rete parte dal Sud-Est asiatico ma colpisce in tutto il mondo. Sempre più frequentemente in Africa, ma anche in Italia, dove gli scammer agiscono attraverso app, come Meta e Tinder, offrendo presunte occasioni di investimento nelle criptovalute. I truffati sono perlopiù cinesi, ma non solo. Spesso a perpetrare le frodi sono le vittime stesse. Li chiamano “macellatori di maiali”: rapiti o ingannati con promesse di guadagno, vengono costretti a infliggere la stessa sorte a qualche malcapitato. Come accaduto a Wang Xing. Uno dei più fortunati.

Nonostante la presenza ingombrante dei compound, fino a poco tempo fa i salvataggi erano infatti una rarità. Il macabro business, pur operando alla luce del sole, ha continuato a prosperare grazie alle relazioni strettissime tra gli scammer e le autorità locali. Tanto che il fenomeno delle frodi ha sollevato diversi dubbi sulla presunta “onnipotenza” di Pechino. Gli autori di Scam: Inside Southeast Asia’s Cybercrime Compounds lo definiscono il “ventre molle della Cina globale”: la difficoltà incontrata dal governo cinese nel porre fine alle truffe oltreconfine, anche a fronte di perdite economiche enormi. Per non parlare del danno d’immagine per la “nuova via della seta”, il piano a guida cinese che si snoda in buona parte attraverso il Sud-Est asiatico.

Poi qualcosa è cambiato. Secondo dati ufficiali, solo tra il 2023 e la fine del 2024, oltre 53.000 sospettati cinesi sono stati catturati in Myanmar, alla frontiera con la Thailandia e la Cina, dove quattro anni fa il colpo di Stato ha reso la situazione politica ancora più instabile. Un’operazione condotta insieme alle autorità di Naypyidaw che ha permesso – dice Pechino – la chiusura di “tutti i centri truffa su larga scala”. Il caso più clamoroso ha coinvolto 23 persone affiliate al potente clan sino-birmano dei Ming, e processate a febbraio con l’accusa di frode, omicidio, lesioni intenzionali, detenzione illegale, estorsione, gestione di una bisca, prostituzione e traffico di droga. La repressione delle scam è avvenuta in parte grazie al supporto della giunta militare al potere dal golpe, su cui il governo cinese ha un forte ascendente economico. In parte grazie alle milizie etniche, che popolano le aree di confine dove sorgono i compound e che in passato hanno alimentato le attività illecite. Ma è soprattutto la portata regionale del problema ad aver reso possibile il recente giro di vite.

“La repressione a Myawaddy è chiaramente avvenuta in larga misura a causa delle sollecitazioni cinesi, ma anche la Thailandia è sottoposta a pressioni interne — da parte della popolazione, dei legislatori e di altri governi — per affrontare ciò che sta accadendo alle sue porte, soprattutto perché funge da rotta di transito per questa industria e fornisce supporti cruciali come elettricità, carburante e segnale internet”, spiega a Ilfattoquotidiano.it Ivan Franceschini, vicedirettore del Centro per gli studi cinesi contemporanei presso l’Università di Melbourne. Secondo l’esperto, “l’influenza e la capacità d’azione della Cina non sono illimitate, ma possiamo osservare che riesce ad agire quando si creano delle opportunità — come nel caso del cambiamento degli equilibri di potere nel nord avvenuto nel 2023, o dell’indignazione pubblica suscitata dagli ultimi casi di alto profilo”. “Penso che possiamo aspettarci, in futuro, una combinazione di cooperazione e pressione”, conclude Franceschini.

L’attenzione di Pechino, probabilmente, si sposterà più a sud. In Cambogia, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale stima che oltre 150.000 persone siano intrappolate nell’industria delle truffe. Un business da circa 12,5 miliardi di dollari l’anno, ormai superiore alle entrate generate dal settore dell’abbigliamento.

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