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Se la prima vittima della guerra è la verità, la seconda sono i giovani

Nei giorni scorsi una mamma ha telefonato alla rassegna stampa di Radio3 per raccontare la propria angoscia di fronte alle parole del figlio diciassettenne
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Mentre la pace è democratica perché riguarda tutti, “la guerra è oligarchica, perché è decisa dai pochi che ne traggono vantaggio a danno dei molti che la combattono e rischiano la vita”, dice Gustavo Zagrebelsky nell’intervista al Fatto Quotidiano del 22 marzo 2025, e – aggiungo – i pochi che la decidono sono anziani e benestanti, i molti che la combattono sono giovani e poveri. La guerra è classista sia rispetto alle classi economiche che generazionali.

Nei giorni scorsi una mamma ha telefonato a Prima pagina, rassegna stampa di Radio3, per raccontare la propria angoscia di fronte alle parole del figlio diciassettenne, in una conversazione a tavola, che vede il proprio futuro al fronte a combattere in guerra, preoccupata dell’impatto sugli adolescenti del bellicismo nel quale è piombato il nostro paese. E del fatto che nessuno se ne preoccupi, al contrario dell’attenzione sociale sugli effetti psicologici su ragazze e ragazzi della pandemia da Covid. Non ho potuto non pensare, ascoltandola, ai tanti giovani per i quali “il fronte” è già il presente, morti e scempiati a milioni anche nel cuore dell’Europa, mentre nei luoghi della politica e dei media – che discettano in astratto di guerra e armamenti – la loro sorte è del tutto ignorata: carne umana mandata al macello. E su come irrazionalità e immoralità di guerra e armamenti siano significate dalla quantità di sangue versato che decide di ‘ragioni’ e ‘torti’. Anziché il valore di quello risparmiato.

Il tema degli effetti della militarizzazione del linguaggio e del pensiero – che ha posto anche papa Francesco, dalla sua fragilità ospedaliera, con la lettera al Corriere della sera che esorta a “disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra” (15 marzo 2025) – in particolare sui più giovani, se lo pone anche un sociologo attento come Luigi Manconi che – pur continuando incredibilmente a considerare la guerra una “necessità ineludibile” – ne sottolinea il costo enorme in termini di normalizzazione della violenza, perché mentre si parla di economia di guerra siamo già piombati in una “società in armi”. Ciò, scrive Manconi, “ha una relazione stretta, direi intima, con i pensieri, le emozioni e i gesti degli appartenenti a quella stessa società. E, in particolare, dei più esposti e vulnerabili tra essi, che sono i bambini, i preadolescenti e gli adolescenti. (…) Non bisogna sottovalutare il mutamento in corso nella psicologia collettiva, specie in quella infantile. Proprio mentre cresce la dimestichezza con il linguaggio delle armi, si tende a rinunciare a qualsiasi giudizio morale sulla guerra. Se quest’ultima diventa un’attività normale, familiarizzarci è una esperienza quotidiana che limita il veto morale che la sanzionava”.

Dunque anche la violenza urbana, le aggressioni e gli atti di bullismo, conclude, risentono dell’“incrudelirsi” delle nostre società, nelle quali il giudizio morale sulla violenza, di cui la guerra è la massima espressione, “è sempre meno cogente” (la Repubblica, 21 marzo 2025).

Si tratta sostanzialmente della medesima questione che mi ha posto, con la franchezza della sua età, la studentessa di un liceo, in uno dei tanti incontri che mi trovo a fare nelle scuole – occupandomi per lavoro, tra le altre cose, di prevenzione della violenza tra i giovani e per impegno civile di prevenzione della violenza della guerra – chiedendomi che esempio siamo noi adulti per i giovani, incapaci di affrontare i conflitti internazionali se non con il mezzo obsoleto della violenza che invece condanniamo nei conflitti interpersonali… Già, che esempio siamo, se anche molti intellettuali che hanno accesso privilegiato ai media promuovono la guerra e censurano, non la sua violenza, ma la mancanza di spirito guerriero dei nostri giovani?

Mi riferisco, per esempio, ad Antonio Scurati che, pur avendo scritto con grande successo su guerra e fascismo e sia consapevole di quanto il militarismo ne sia stato il primario elemento identitario, si rammarica che i giovani, viziati dal pacifismo, non siano più “guerrieri” (la Repubblica, 4 marzo 2025). Seguito da Umberto Galimberti che, ancora più gravemente in quanto “esperto” di pensiero e animo umano, ha nostalgia della guerra, definita hegelianamente “vento che smuove l’acqua stagnante” della pace, “tradotto” – sono parole sue – “se non c’è la guerra la gente intorpidisce”. Tutte le generazioni della storia, dice Galimberti con miope eurocentrismo, hanno fatto la guerra, mentre adesso siamo alla terza generazione con non sa che cosa sia e dunque è diventata “imbelle”, ossia incapace di guerreggiare, perché “la pace intorpidisce la dimensione guerriera” (La torre di babele, La7, 10 marzo 2025).

Chiunque sia indicato, di volta in volta, come “il nemico” nella preparazione dei popoli ai conflitti armati, una cosa è certa: se la prima vittima della guerra è la verità, la seconda sono i giovani di tutti i paesi sacrificati sull’altare dei militarismi contrapposti. Stritolati dalla macchina bellica, annegati in un mare di sangue, ma non… intorpiditi nello “stagno della pace”. Ogni guerra, contro qualsiasi nemico, è prima di tutto guerra ai giovani. Meglio che essi ne siano consapevoli e – mentre governi, intellettuali e vertici militari pensano a come arruolarli – si preparino a praticare la diserzione e l’obiezione di coscienza, come tanti coetanei dei paesi già in guerra.

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