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Rinnovabili, la “guerra fredda verde” tra Usa e Cina. Il ricercatore Mastini: “Se l’Europa non reagisce, ne rimarrà schiacciata”

"Una frenata nella transizione aggraverebbe la dipendenza dal GNL americano, esponendo il nostro continente a rischi economici e geopolitici senza precedenti"
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“La competizione globale per il controllo delle tecnologie verdi ha inaugurato una nuova fase di confronto geopolitico, definita come una ‘guerra fredda verde’, in cui Stati Uniti e Cina si contendono la leadership nel settore delle energie rinnovabili, mentre l’Europa rischia di rimanere schiacciata tra le due superpotenze, con conseguenze potenzialmente irreversibili per la sua autonomia strategica”. Riccardo Mastini, ricercatore in Economia ecologica al Politecnico di Milano, lancia un allarme: Washington rischia di spingere sulla nostra dipendenza dal suo gas e di frenare la transizione verde in Europa, basata anche sull’acquisto di tecnologie verdi dalla Cina. Bruxelles deve assolutamente sottrarsi a questa morsa, pena il rischio di una recessione economica e il fallimento della transizione ecologica e del Green Deal.

Partiamo dalla Cina. Sul fronte della transizione sembra essere ormai avanti a tutti.

Negli ultimi due decenni, la Cina ha consolidato una posizione dominante grazie a investimenti strategici senza precedenti in energie rinnovabili, veicoli elettrici, batterie e filiere industriali critiche come quella dei pannelli solari. Attraverso una combinazione di sostegno statale, pianificazione industriale a lungo termine e innovazione tecnologica, Pechino non solo ha ridotto i costi di produzione, ma ha anche migliorato l’efficienza e la qualità dei prodotti, posizionandosi come il principale fornitore mondiale di tecnologie pulite. La Cina ha sfruttato le esportazioni di tecnologie verdi in Europa, Africa e America Latina per ampliare la propria influenza diplomatica e commerciale, che ridefinisce gli equilibri di potere globali.

Qual è stata la risposta di Washington?

L’attuale risposta di Washington a questa ascesa è radicale e controproducente. Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2025, gli Stati Uniti hanno invertito molte politiche climatiche precedentemente avviate dall’amministrazione Biden, come quelle legate all’Inflation Reduction Act e all’Infrastructure Investment and Jobs Act. L’amministrazione Trump ha inoltre revocato i mandati federali sui veicoli elettrici, allentato le restrizioni ambientali sull’industria fossile e autorizzato nuove esplorazioni petrolifere in aree sensibili come l’Artico e il Golfo del Messico. Parallelamente, gli Usa hanno intensificato misure protezionistiche, imponendo dazi su pannelli solari, batterie e componenti cinesi, e promuovendo accordi bilaterali per escludere Pechino dalle catene di approvvigionamento occidentali.

Quali le conseguenze di queste scelte?

Da un lato, aumentano i costi delle tecnologie verdi per i consumatori americani, rallentando la transizione energetica interna; dall’altro, isolano gli Stati Uniti dal mercato globale delle rinnovabili, rischiando di comprometterne la competitività futura e relegandoli a un ruolo marginale nella corsa all’innovazione green. Il paradosso di questa strategia risiede nel fatto che, storicamente, le politiche protezionistiche statunitensi non hanno rafforzato la produzione interna, ma hanno invece generato effetti contrari. Un esempio emblematico è rappresentato dai dazi imposti nel 2018 sui pannelli solari cinesi che, anziché rilanciare l’industria locale, hanno aumentato i costi per le aziende e i cittadini, frenando l’adozione di energie pulite e favorendo indirettamente il consolidamento del dominio cinese nel settore. Oggi gli Usa rischiano di consolidare la dipendenza globale dai combustibili fossili, in particolare dal gas naturale liquefatto (GNL), di cui sono diventati il principale esportatore. Questo approccio non solo ostacola la lotta al cambiamento climatico, ma alimenta una competizione geopolitica che penalizza gli alleati, primo fra tutti l’Unione Europea.

A proposito di Europa: dove si trova in questo quadro?

L’Europa, un tempo considerata l’avanguardia della transizione ecologica, si trova oggi in una posizione precaria, divisa tra ambizioni verdi e realpolitik energetica. Da un lato, il Green Deal europeo mira a decarbonizzare l’economia entro il 2050, promuovendo energie rinnovabili e innovazione tecnologica; dall’altro, Bruxelles deve fare i conti con le pressioni degli Stati Uniti, che cercano di influenzarne le scelte energetiche attraverso leve economiche e diplomatiche. Washington persegue due obiettivi principali: mantenere l’Europa legata al GNL americano e impedire un’integrazione tecnologica con la Cina. Dopo la crisi energetica seguita all’invasione russa dell’Ucraina, l’Ue ha sostituito gran parte delle importazioni di gas russo con GNL statunitense, che oggi copre oltre il 40% del fabbisogno continentale. Gli Usa hanno sfruttato questa dipendenza per rafforzare accordi di lungo termine e promuovere la costruzione di infrastrutture per la rigassificazione, legando così l’Europa a un modello energetico costoso e poco flessibile, che rischia di diventare una trappola strategica. Una transizione troppo rapida verso le rinnovabili minaccerebbe questo legame.

L’America, insomma, vorrebbe bloccare l’importazione di tecnologie verdi cinesi in Europa.

Gli Stati Uniti esercitano pressioni per limitare l’accesso dell’Europa alle tecnologie verdi cinesi, più economiche e avanzate. Bruxelles importa già grandi quantità di pannelli solari, batterie e veicoli elettrici dalla Cina, sfruttando vantaggi competitivi che permetterebbero di accelerare la transizione verde. Tuttavia, Washington spinge per l’introduzione di dazi e restrizioni agli investimenti, promuovendo invece collaborazioni con aziende statunitensi attraverso la creazione di un “blocco tecnologico occidentale”. Questa strategia, tuttavia, rischia di aumentare i costi per le imprese e i cittadini europei, rallentando la diffusione delle rinnovabili e indebolendo la competitività industriale dell’Ue in settori cruciali come l’automotive e l’energia.

Bruxelles non deve cedere?

No. Se l’Europa cedesse a queste pressioni, le conseguenze sarebbero gravi e multidimensionali. Una frenata nella transizione verde aggraverebbe la dipendenza dal GNL americano, esponendo il continente a rischi economici e geopolitici senza precedenti. I costi energetici elevati, combinati con la vulnerabilità alle fluttuazioni dei prezzi globali, minaccerebbero la stabilità industriale e commerciale dell’Ue, già alle prese con una concorrenza aggressiva da parte di Cina e Stati Uniti. Inoltre, un rallentamento degli investimenti nelle rinnovabili potrebbe spingere le aziende europee a delocalizzare in Paesi con politiche verdi più avanzate, come la Cina, accelerando il declino industriale del Vecchio Continente e erodendo la base produttiva su cui si fonda la prosperità europea. Senza un accesso competitivo alle tecnologie cinesi, l’Europa rischierebbe inoltre di perdere terreno nell’innovazione, rimanendo intrappolata in un modello energetico obsoleto e costoso, mentre il resto del mondo avanza verso un futuro low-carbon.

La posta in gioco è altissima.

Sì, le scelte di oggi definiranno il suo destino nel panorama globale del XXI secolo. Per evitare di trasformarsi in una “colonia energetica” degli Stati Uniti, Bruxelles deve adottare una strategia autonoma, resistendo alle pressioni esterne e accelerando la transizione ecologica con determinazione. Questo richiederebbe non solo investimenti massicci nella produzione interna di tecnologie verdi, ma anche la diversificazione delle fonti di approvvigionamento, per ridurre la dipendenza da attori esterni, e la creazione di alleanze globali al di fuori della polarizzazione Usa-Cina, coinvolgendo Paesi emergenti e economie in via di sviluppo. Solo così l’UE potrebbe ridurre la dipendenza dal GNL statunitense, riconquistare leadership nel settore delle rinnovabili e garantire la propria sicurezza economica in un mondo sempre più diviso e competitivo.

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