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“Un solo bar e la palestra degli anni 50. Vi racconto come ho imparato la boxe vera”: il viaggio di Ivan Zucco in uno sperduto paesino del Messico

Il pugile italiano il prossimo 7 giugno sfiderà Simpson per il titolo europeo dei supemedi. Con ilfattoquotidiano.it ripercorre i suoi allenamenti a Jiquipilco, dove si è trasferito per sei settimane
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Ivan Zucco si sta ora allenando nella palestra della sua Verbania con il papà Andrea, da sempre il suo maestro: il 7 giugno prossimo allo stadio Oakwell, nel South Yorkshire, sfiderà il britannico Callum Simpson per il titolo europeo dei supemedi. Intanto, a ilfattoquotidiano.it ha voglia di raccontare l’esperienza di boxe e di vita che ha fatto recentemente in Messico. Sei settimane nella palestra di un paesino in altura con il collega e compagno di scuderia Opi Vincenzo La Femina per migliorarsi come professionista.

Dove siete stati di preciso?
A Jiquipilco, un’ora e mezzo da Città del Messico, a quasi tremila metri d’altezza. Venti gradi di giorno ma tre al mattino quando andavamo a correre, senza però l’umidità.

Comunque freddino…
Sì. Si partiva in 24 atleti su due pick-up, per cui tanti stavano sui cassoni fuori. Ogni mattina cercavo di correre più veloce di tutti per prendere posto dentro al rientro dopo gli otto chilometri. Non volevo prendere il raffreddore.

Come mai siete andati in Messico?
Non posso definirlo un camp vero e proprio improntato al match, visto che non c’è ancora la data per l’Europeo. Io e Vincenzo siamo andati per migliorarci e assaporare la boxe vera, in Messico è sport nazionale. Io ho lavorato molto sulla difesa e gli spostamenti.

Spieghi pure.
La mia boxe è ancora un po’ dilettantistica. Soprattutto nello stile di posizione, i messicani invece stanno più bassi con le gambe, il busto e la testa avanti e si picchiano.

Nel prossimo match la vedremo così?
Ci sto provando. Io comunque sono un pugile che fa male per cui potrebbe essere una tattica favorevole per me quella di andare allo scontro.

Su cosa ha lavorato?
Sul tronco, uscire con il jab, portare montanti. Loro lavorano tanto al corpo, mentre io cercavo la testa: ma poi senti tutti quei colpi che ti danno, anche Canelo fa così.

Differenze con la sua palestra?
A casa mia mi alleno di più. Mi alleno sempre, tanto, forse troppo. Io anche le fascette le metto in movimento. Lì ti prendi le tue pause e la settimana è più diversificata. Lunedì e mercoledì sparring vero, martedì e venerdì sparring condizionato, lavori a coppie e passate, giovedì non guanti in palestra, ma tutto a vuoto.

Come è il livello dei pugili?
Ce ne sono tanti e talmente forti che per loro è difficile anche uscire dalla palestra e vincere il titolo nazionale.

Eravate gli unici stranieri?
C’erano messicani da Sinaloa, da Guadalajara, poi californiani, cubani, costaricensi, cileni. Ci allenavamo in tre gruppi da otto pugili. Qualche nome? William Zepeda Segura, Yokasta Valle, Carlos Cuadras…”

Lei con chi faceva sparring?
C’erano tanti pesi piccoli, io facevo i guanti con un superwelter che in quei giorni era 75 kg, mentre io ero tirato a 81.

E i Maestri?
Il principale era Coach Panda, uno che è stato all’angolo di sette campioni del mondo. Poi c’era un cubano e quattro allenatori del posto, proprio del paesello di Jiquipilco.

A proposito come era il paesello?
Un’unica palestra, frequentata anche dai ragazzini nati là, a tre minuti a piedi dall’appartamento in cui alloggiavamo. Non ci sono supermercati, un unico bar, purtroppo sotto casa, che metteva musica dal pomeriggio fino a notte fonda, una sera Vincenzo è sceso arrabbiato perché non riuscivamo a dormire.

Com’era la palestra?
Piccola con attrezzature vecchie, senza alcuna foto dei campioni. La pressa dei pesi sarà stata degli anni Cinquanta, i sacchi vecchi, ma la boxe è uno sport povero, e quello che serve è passione, disciplina e conoscenza dello sport. Qui gli allenatori allenano tutti i professionisti, mentre da noi in Italia il professionismo si era perso, anche se ora si sta riprendendo.

E papà Andrea?
A casa a Verbania, ma cercavo di aggiornarlo in call ogni giorno. In Italia non ci sono maestri con lo stile messicano ma ce ne sono comunque di giovani e bravi, che stanno girando il mondo. A papà ho portato quello che mi hanno insegnato in quelle sei settimane e ci stiamo confrontando, ovviamente non insegno a lui a fare il maestro.

Con La Femina come è andata la convivenza?
Bene, io ero lo chef di casa, cucina italiana, con qualche tortilla comprata da una signora che le faceva artigianalmente. Una volta sono stato male, bevendo della coca-cola con il ghiaccio. Ho saltato solo un allenamento, per fortuna, perché era il weekend. Io di solito sto attentissimo a queste cose. Alle sera comunque andavamo a letto presto, visto che al mattino la sveglia era prima dell’alba. Siamo andati là per lavorare, non in vacanza.

Tornerà in Messico a ripetere l’esperienza?
Sicuramente, poi un giorno mi piacerebbe conoscere altri Paesi, per vedere gli stili cubani, gli ex sovietici e gli americani.

Ora il match con l’inglese Callum Simpson per l’europeo. E poi?
Ormai ci siamo. Voglio proseguire passo dopo passo, ma l’obiettivo è avere un giorno una chance mondiale. Non perché sia la mia, ma quella dei supermedi è la categoria più dura in questo momento: Canelo, Berlanga, Iglesias, i due francesi Sadjo e Mbilli…”

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