Eurogate, la guerra delle lettere di Cina e Ue sul 5G. Ecco tutte le pressioni esercitate sulla Commissione

Le lettere erano l’arma per cercare di scardinare le difese di Palazzo Berlaymont, gli emendamenti, invece, gli atti ufficiali coi quali tentare di condizionare le politiche europee. Se si guarda allo scandalo sul presunto sistema corruttivo messo in piedi da lobbisti di Huawei nelle stanze del Parlamento Ue, favoriti da europarlamentari compiacenti e, sostengono le carte, pagati per esercitare pressione sull’Eurocamera e sulla Commissione Ue, non si può limitare lo sguardo solo alle due lettere inviate a gennaio e ottobre 2021 dal gruppo di eurodeputati oggi sotto la lente della Procura federale belga, accusati a vario titolo di associazione a delinquere, corruzione e riciclaggio. Le due missive sono solo due episodi di una guerra durata per anni e che, alla fine, ha portato all’esclusione delle aziende cinesi Huawei e Zte dalla corsa allo sviluppo della rete 5G in Europa.
Ciò che si scopre spulciando gli archivi, ad esempio, è che di lettere ce ne sono altre precedenti a quelle finite nelle indagini dei pm belgi. La prima è datata 14 ottobre 2020 e porta la firma di 41 europarlamentari di cinque gruppi politici diversi (Renew, Socialisti, Verdi, Conservatori e Ppe). Anch’essa è indirizzata, come quelle finite sotto la lente della Procura belga, agli allora commissari Thierry Breton, Margrethe Vestager e Valdis Dombrovskis, ma avanza richieste diverse: tenere fuori la Cina e le sue aziende dalla corsa al 5G. Tra chi la sostiene spicca il nome dell’allora eurodeputato Giuseppe Ferrandino: una scelta sorprendente, dato che pochi mesi dopo il suo nome compare al fianco di quelli di Fulvio Martusciello, Giuseppe Milazzo, Herbert Dorfmann, Aldo Patriciello, Cristian-Silviu Busoi, Daniel Buda e Ciuhodaru Tudor, tutti non indagati, per chiedere a Bruxelles di non escludere le aziende di Paesi terzi dai bandi sul 5G. Contattato da Ilfattoquotidiano.it Ferrandino ha commentato: “La circostanza rafforza ancora di più il mio convincimento di non aver mai firmato la lettera in questione (quella che ha come primo firmatario Martusciello, ndr). Le posso affermare con certezza di non aver mai incontrato, neanche per interposta persona, persone riferibili alla società Huawei. Né ho ricevuto alcun tipo di benefit o promesse di alcun genere”. Anche Dorfmann ribadisce al Fatto di non avere “alcun coinvolgimento nella questione”.
La missiva firmata dai 41 europarlamentari è lunga ed elenca i motivi per cui l’Europa dovrebbe tenere i big delle telecomunicazioni di Pechino lontani dal mercato sullo sviluppo della nuova rete. Riassumendo, gli eurodeputati sostengono che è necessario per l’Ue “mantenere il know-how, la capacità e un certo livello di indipendenza nei settori critici” e aggiungono che “il 5G è un elemento centrale della sovranità digitale dell’Europa e l’iniziativa di sicurezza del 5G dell’Ue ha giustamente l’obiettivo di salvaguardare la sicurezza del 5G come infrastruttura critica per l’Europa. In linea con questa iniziativa, la sicurezza del 5G deve essere promossa garantendo soluzioni di sicurezza tecnicamente valide, escludendo i fornitori che rientrano nella categoria ‘ad alto rischio‘”. Ad “alto rischio”, si esplicita successivamente, sono anche le due aziende cinesi Huawei e Zte. I motivi sono presto riassunti: queste rappresentano “una minaccia alla sicurezza“, un favore ad aziende di Paesi extra-Ue che “limitano l’accesso delle aziende europee ai propri mercati degli appalti” e una concorrenza sleale nei confronti delle società europee dato che quelle cinesi “hanno ricevuto un sostanziale sostegno statale” che “consente loro di dominare il mercato globale”.
Una semplice presa di posizione di poco conto? Non proprio. Lo dimostra un’altra lettera, questa volta inviata dalla Camera di Commercio cinese in Ue sempre ai tre commissari, appena 14 giorni dopo, nella quale si replica alle accuse di concorrenza sleale spiegando che il cosiddetto 5G Toolbox, ossia gli standard di sicurezza del mercato europeo del 5G, “non includono alcuna relazione geografica con un Paese” e che quindi la questione “è stata politicizzata“. Si aggiunge poi che aziende europee come Ericsson e Nokia “sono state profondamente e ampiamente impegnate nel mercato delle telecomunicazioni cinese”, prima di concludere ricordando che “qualsiasi atteggiamento discriminatorio e potenzialmente xenofobo violerebbe il diritto dell’Ue sotto molti aspetti, come la libera circolazione di beni e servizi, il diritto fondamentale alla proprietà e la libertà di condurre affari”.
A questo punto, la guerra, che si concluderà solo nel 2023 con l’esclusione di Huawei e Zte dalla corsa al 5G, è già iniziata. E le aziende, secondo le indagini, si sono mosse in fretta: a gennaio 2021 viene inviata la prima lettera oggi oggetto d’indagine che chiede una maggior apertura alle aziende extra-Ue e di non cedere al “razzismo tecnologico“, a ottobre dello stesso anno ne verrà spedita un’altra. Nel frattempo, stando almeno a quanto dichiarato in un’intercettazione dal lobbista capo di Huawei a Bruxelles, Valerio Ottati, anche lui arrestato nell’ambito dell’inchiesta, il colosso cinese “pagava anche gli emendamenti” in suo favore. Ilfattoquotidiano.it ne ha rintracciati alcuni presentati proprio da Martusciello il 3 febbraio 2021 alla commissione per i Problemi economici e monetari (Econ) del Parlamento Ue durante la votazione del Rapporto sulle politiche di concorrenza 2020. Se approvati, avrebbero favorito anche Huawei nella sua corsa al 5G europeo.