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Non c’è più tempo: dobbiamo salvare la sanità pubblica. Le parole di Garattini sono illuminanti

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Ho assistito, a Pedrengo sabato 22 marzo scorso, da cittadino, da medico e da consigliere della Associazione sereniesempreuniti, alla commemorazione del quinquennio dei familiari delle vittime del Covid.

Parto con il ringraziare i due artisti che hanno partecipato alla serata: Maurizio Milesi il cui libro vi consiglio di acquistare e di leggere, come ho fatto io, perché lascia un segno visivo non solo fotografico; Andrea Tonoli, musicista, che ha allietato le nostre orecchie con tre pezzi fantastici. Il mio personale ringraziamento va a Giulio Valesini, che ci ha ricordato la storia del Covid vista da Roma e costruita nelle sue puntate di Report, e soprattutto a Maria Rita Gismondo che mi ha lasciato a bocca aperta sulle tante verità vere della pandemia e che ha nominato il grande Francesco Zambon.

Ultimo ma non ultimo il Grande Vecchio Silvio Garattini ci ha insegnato tante cose, come quella che il suo Mario Negri aveva evidenziato la presenza del virus da campioni di acque reflue già dalla fine del 2019, ma soprattutto ha messo con forza in risalto il fatto che se dovesse esserci una nuova pandemia saremmo nelle stesse condizioni di prima. Parole che ha detto di aver pronunciato anche in audizione alla Commissione parlamentare sul Covid a Roma qualche giorno prima.

Proprio sulle parole di Silvio Garattini voglio soffermarmi perché sono le parole che scrivo da cinque anni. Avremmo potuto sfruttare la tragedia e far nascere dalle ceneri delle persone decedute un fiore di speranza per una nuova sanità utile a tutti i cittadini invece ci siamo lasciati coinvolgere dalla volontà di vivere e tutti, a cominciare dai medici, abbiamo più dimenticato che curato i mali del nostro sistema sanitario sempre più in rianimazione.

“Molti dei nostri concittadini non sono in buona salute e non hanno abbastanza soldi per curarsi, è venuto il momento di aiutarli. Medici ne abbiamo, ma non sempre dove servono. E non è sufficiente costruire infrastrutture, le dobbiamo distribuire in modo uniforme nel Paese e farci carico degli operatori e dei servizi”. Con questo messaggio, letto di fronte al Congresso degli Stati Uniti il 19 novembre 1945, Harry Truman chiedeva per il suo Paese un servizio sanitario, e che fosse per tutti e per tutte le malattie. E come è finita?

Passano ottanta anni precisi e David Blumental che è professore a Harvard scrive sul New England Journal of Medicine: “Gli Stati Uniti hanno fallito, si sono sottratti alla responsabilità fondamentale di ogni Nazione: proteggere i propri cittadini dal soffrire e morire senza una ragione”. Ancora oggi la maggior parte degli americani super-assicurati ha difficoltà ad ottenere quello che serve per curarsi, non trova un accordo con l’assicurazione, intanto la malattia va avanti e servono consulenti per orientarsi nel labirinto delle clausole.

Vogliamo proprio non fare nulla per salvare il nostro sistema sanitario nazionale? Non vogliamo proprio ridurre gli sprechi invece di aumentare i tagli? Siamo sicuri di investire bene i soldi, che dovremo restituire, del Pnrr?

Intanto in quell’America che ottant’anni fa aveva snobbato la proposta di Truman ci si comincia a chiedere se non sia arrivato il momento di avere un servizio di salute per tutti e che sia pubblico “per riuscirci davvero si dovranno superare grandi difficoltà, ma le ragioni per farlo sono gigantesche” scrive sul New England Journal of Medicine Margaret (“Peggy”) Hamburg, che è stata presidente dell’American Association for the Advancement of Science, e aggiunge: “se non ora quando?”.

Da noi se non ora quando, visto che abbiamo perso questi cinque anni che avrebbero dovuto insegnarci tanto?

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