Vicenda Trentini: l’Italia è brava nella diplomazia silenziosa, ma c’è chi come me ha vissuto il peggio

La vicenda di Alberto Trentini, prigioniero in Venezuela da ormai quattro mesi, dovrebbe farci ricordare quante vicende simili hanno negli ultimi 20 anni visto coinvolti italiani che a vario titolo si trovavano in paesi lontani e problematici. Notoriamente il nostro Paese ha la memoria corta, soprattutto su vicende troppo complicate o scomode che anzi è meglio vadano a finire in un comodo dimenticatoio. Poco importa se il diretto o la diretta interessata ha vissuto un periodo angoscioso, più o meno lungo, in condizioni brutali e in costante pericolo di vita. Se poi il connazionale ci lascia la pelle, la verità sugli eventi che ne hanno causato il sequestro muore con lui assieme ad ogni imbarazzo politico.
Ogni caso ha la sua storia, ma se andiamo a vedere le singole (davvero tante) storie dal 2004 a oggi possiamo dire che, semplificando, i sequestri di italiani all’estero si dividono in tre macro-categorie principali:
1. Turisti (come Maria Sandra Mariani, rapita il 2 febbraio 2011 da uomini armati in Algeria e rilasciata un anno dopo) o lavoratori in vari settori (come i due tecnici Marco Vallisa e Gianluca Salviato, rapiti in Libia nel 2014 e liberati dopo molti mesi).
2. Cooperanti, missionari e giornalisti (come il cooperante Giovanni Lo Porto sequestrato in Pakistan nel 2012 e ucciso nel 2015 in un raid della Cia, o il gesuita padre Paolo Dall’Oglio volatilizzatosi in Siria nel 2013 e mai più ricomparso; senza dimenticare, tra gli altri, i giornalisti Giuliana Sgrena e Domenico Quirico).
3. Vi sono poi tutti quei connazionali la cui presenza in paesi ad alto rischio ha, parzialmente o completamente, motivazioni ancora da chiarire: mentre sulle attività del povero Fabrizio Quattrocchi in Iraq si sa (quasi) tutto, sulla triste vicenda di Giulio Regeni vi sono ancora punti abbastanza opachi.
Spesso e volentieri, il confine tra “sequestro” e “arresto/detenzione” è altrettanto opaco. E’ qui che la lunga esperienza della “diplomazia silenziosa” italiana dà il meglio di se stessa: il nostro Paese ha una lunga e consolidata esperienza in trattative a tutti i livelli, soprattutto in paesi tradizionalmente instabili e problematici, volte a riportare i nostri connazionali a casa. Poco importa, in realtà, se di queste trattative fanno parte valige di contanti, scambi di persona o “favori” di vario tipo: l’Italia restituisce (quasi sempre) i propri sequestrati alle famiglie. Il nostro pragmatismo è ben noto e praticato con grande efficacia dai nostri diplomatici, ma soprattutto dai nostri servizi di informazione con competenza estera. Pochi si rendono conto di quanto in certi paesi la realtà dei rapporti quotidiani possa essere complessa: un’amicizia del tutto innocente può essere in realtà molto pericolosa, il nostro amico/a è magari collegato per vincoli anche a lui non noti a gruppi di opposizione, dissidenti del regime se non terroristici o perlomeno considerati tali.
Il terreno scivoloso e spesso criminale sul quale queste vicende si snodano è estremamente delicato ed è del tutto normale che all’opinione pubblica e soprattutto ai politici le notizie arrivino frammentarie (se e quando arrivano) e di molto depurate: l’esito di ogni trattativa è incerto, raramente il nostro connazionale scompare per sempre ma è imperativo non alimentare aspettative e speranze che, fino all’ultimo, sono appese ad un filo. Però noi negoziamo e i servizi di intelligence sanno farlo molto bene: i nostri Capocentro e le nostre Antenne hanno rapporti consolidati e spesso molto personali con gruppi e individui che sarebbero del tutto preclusi ai diplomatici della Farnesina. A volte i sequestrati sono finiti senza volerlo in giochi più grandi di loro… o hanno giocato la partita sbagliata, come accadde a me.
I sequestratori possono essere gruppi terroristici, paramilitari, criminali o servizi di intelligence locali: le motivazioni nella maggioranza dei casi sono economiche e/o “leverage deals” ovvero scambi di persone o altre “cortesie”. Quando le cose funzionano e il connazionale torna a casa, il fine ha certamente giustificato i mezzi: in qualche raro caso le cose vanno storte, il connazionale sparisce, viene ucciso o comunque passa un lunghissimo periodo in detenzione. A parte gli addetti ai lavori nessuno dovrà mai sapere cosa è realmente successo, perché talvolta la ragion di Stato deve prevalere sulla verità ed è bene che tutti se ne facciano una ragione. Talvolta questa ragion di Stato pare essere un po’ torbida, come nel caso del sequestro di Silvia Romano in Kenya nel novembre del 2018 e conclusosi in Somalia nel maggio del 2020. L’ottimo reportage di Matteo Viviani a Le Iene (al quale ho portato un modestissimo contributo) delineò una vicenda molto opaca anche nel nostro operato istituzionale: ma in finale Silvia Romano è tornata a casa viva e questa, al di là delle inevitabili polemiche, è la cosa più importante.
Già, la “verità”… nel mondo dell’intelligence la verità dovrebbe essere un processo che ha unito fili, colto segnali contrastanti e contestualizzato le informazioni. In realtà a volte dobbiamo difendere la verità da se stessa adattandola a scenari molto complessi: i danni collaterali sono le vittime, spesso rapidamente dimenticate, di questo spietato processo. Questo è certamente il caso della vicenda che mi ha coinvolto personalmente nel 2008: 373 giorni di sequestro, per buona parte trascorsi in un campo di concentramento in Cambogia. Tutti ufficialmente sapevano, nessuno intervenne, il silenzio stampa fu totale e imbarazzante, la mia famiglia pagava le rate del riscatto e io marcivo. L’unica differenza dagli altri casi dei quali ho parlato è che io non dovevo tornare: la vicenda è ben nota solo perché, assieme a Luigi Carletti, ne ho scritto un libro best seller che mi fu vivamente sconsigliato di pubblicare: nonostante molte apparizioni televisive (da Porta a Porta a Le Iene) sulla mia storia è calato un silenzio tombale. Queste sono le regole del gioco e io le conosco bene.