La parabola degli astri cadenti: ‘A different man’, ‘The last showgirl’ e ‘The shrouds’

Sognare il successo, ma anche viverne ascesa e precipizio, la totale perdita. Come vediamo noi stessi e gli altri, e il mondo come ci gira realmente intorno? La percezione del corpo a volte la intendiamo come bellezza che dà successo e senso alla vita, scrigno del nostro talento o tabernacolo dei nostri sentimenti. Così elementi come esibizione, voyeurismo, aspirazioni, complessi, morbosità o addirittura caduta s’intrecciano in tre racconti cinematografici ora in sala, uno anche un po’ oltre la morte terrena. Temi concatenati, stili differenti, ma tutti destinati a una parabola pindarica.
Cominciamo con The Last Showgirl, opera seconda di Gia Coppola. La sceneggiatura di Kate Gersten presenta dialoghi agili e incisivi, un’asciuttezza mirabile nell’economia delle parole e una profonda forza emozionale. Chi ama il cinema dovrà tener d’occhio la sua penna. Le attrici la seguono perfettamente regista e autrice. Jamie Lee Curtis, qui ex-ballerina saggia e disperata balla in una scena con la sua goffaggine commovente e le caviglie gonfie. Curtis con il suo character contiene insieme sguardo disilluso sulla decadenza di un corpo statuario e carisma da anziana del gruppo. Il film proviene da una pièce teatrale della stessa Gersten e mostra sala trucco, le cucine e le vite senza lustrini di un gruppo di ballerine a Las Vegas. Il loro spettacolo trentennale, puro intrattenimento di strass e vitini strizzati in corpetti luccicanti sta per chiudere per sempre, e un futuro molto incerto bussa prepotente alle porte di queste donne fragili e bellissime, ma insieme risolute e sfiorite.
Questa polvere di stelle che sta per smettere di brillare, Coppola la inquadra solo fuori dal palco, scandagliandola attraverso la sorpresa di una rinascita attoriale: una grande Pamela Anderson, protagonista che sembra donarci qui il suo The Wrestler al femminile. La parabola dell’eroe di Mickey Rourke era accostabile a questa, ma speriamo che per Anderson, in carriera, non sia un canto del cigno, bensì un nuovo inizio. La regia indie a basso budget lavora a una punteggiatura d’immagini tra sfocature mosse e colori saturi su Vegas, restituendoci una cifra stilistica potente che ricorda un po’ Sean Baker, una messa in scena mai banale e sempre vibrante. Poi ci aggiunge la nuova performance solidissima di Dave Bautista, attore che vale oro quanto pesa, bestione alfa sensibile e raffinato con il suo lavoro splendidamente a contrasto già in Guardiani della Galassia, Blade Runner 2049 e Bussano alla porta. Il corpo d’attrice di Anderson invece non indossa più costumi rossi da bagnina, ma diventa specchio offuscato dal tempo fatto di luci della ribalta e dissidi da madre assente, e dalla caduta di questo astro nasce, appunto, una grande attrice. The Last Showgirl sintetizza perfettamente l’illusione sulla caducità dei sogni affidati alla pergamena del corpo.
Bizzarro e decisamente anticonvenzionale in forma e sostanza risulta invece A different man, dramma giocato sulla deformità e sul desiderio, inespresso o infranto che sia, di essere migliore, di essere altro. L’autore Aaron Schimberg lancia i dadi del talento e dell’esteriorità nella vita di un giovanotto complessato per il suo volto sfigurato proiettandolo verso una guarigione che lo renderà star attraente e tronfia. Il triangolo è composto da Sebastian Stan, il bello che sboccia come un fiore, il brutto talentuoso e inarrestabile Adam Pearson, e Renate Reinsve, che se non fa la cattiva tocca con leggerezza i tasti di un brillante cinismo. La loro sarebbe la stessa New York di Woody Allen, ma le accelerazioni grottesche sul corpo e sulla multiforme metafora della fiducia in se stessi producono la caduta delle certezze, infrante come un cristallo rovente sullo spettatore. Il peso destabilizzante di tutto ciò, sul piano musicale è sostenuto da un musicista italiano, Umberto Smerilli, che per l’occasione compone una serie di arie e variazioni sul tema quasi tutte orchestrali. Un soundtrack che aderisce amnioticamente agli avvitamenti di questo film, forse l’outsider più border degli Oscar e dei Golden Globe 2025.
Arriviamo così al maestro dell’estremo e alla sua nuova creatura The shrouds, in italiano “i sudari”. Sì, proprio le stoffe che avvolgevano i morti in molte antiche civiltà. Così un vedovo facoltoso, per restare al fianco della moglie portata via da un tumore, mette su un’agenzia di tombe high-tech che grazie (si fa per dire) a uno schermo sulla lapide, mostrano il corpo del caro estinto con l’impietosa diretta sulla sua decomposizione. Le relazioni tossiche possono manifestarsi anche dopo il lutto? Chissà.
Stavolta David Cronenberg utilizza il dolore come un astro caduto che si ostina a sbirciare sotto terra, bucando con il suo voyeurismo la barriera ottica tra vita e morte. Sconfina infatti in una nuova dimensione dell’indicibile, l’interno di un loculo, per mostrarci la morbosità umana, l’opposizione a una qualsiasi rielaborazione del lutto e un’anti-spiritualità materica che trascende anche ogni ateismo a favore della non-accettazione individualistica, e punta su una concezione dei legami tra le persone più simili al capriccio per un giocattolo rotto che al lasciare andare.
Ci riesce? Sì e no, i suoi concept e temi basici restano indiscutibilmente forti, ma questa messa in scena plumbea non regala granché di nuovo, a parte la summa concettuale del cinema di Cronenberg. Inoltre il pastiche s’imbottisce di sottotrame spionistiche che lo infittiscono e appesantiscono inutilmente, facendolo somigliare a un certo punto ad una serie tv castrata in film. Senza infamie e senza lodi il cast. Vincent Cassel fa il vedovo inconsolabile, Diane Kruger la morta, ma pure la sua ambigua sorella gemella. #PEACE
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