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Perché l’Onegin di Cranko al Teatro dell’Opera di Roma è stato uno spettacolo straordinario

La coreografia spazia con grande equilibrio tra danze popolari e atmosfere aristocratiche, con la grande attenzione allo scavo psicologico nella gestualità
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Dopo quasi dieci anni è tornata in scena al Teatro dell’Opera di Roma il balletto Onegin di John Cranko, basato sull’elaborazione musicale di Kurt-Heinz Stolze, ispirato al poema Evgenij Onegin di Aleksandr Puškin, su musiche di Pëtr Il’ič Čajkovskij.

Posso subito anticipare che è stato uno spettacolo straordinario, ma prima forse è opportuno fare ordine per il pubblico meno avvezzo al tema.

Innanzitutto, parliamo dell’opera a cui è ispirato il balletto: Evgenij Onegin di Alexandr Puskin, pubblicato dopo una gestazione quasi decennale nel 1833, un poema (o meglio romanzo in versi) che ha in qualche modo posto le basi formali dei grandi romanzi russi della seconda parte dell’Ottocento. Se Dostoevskij è stato il maestro impareggiabile dell’introspezione spirituale più feroce e abissale e Tolstoj il classico in grado di contemplare con sguardo olimpico i tumulti della storia e dell’animo umano, Puskin ha rappresentato l’origine della grande letteratura russa moderna, non solo per la prodigiosa abilità versificatoria (lo schema delle rime rispettato nel romanzo è inusualmente complicato) e l’eleganza stilistica (sinonimo in Russia di “sublime”), ma per la profondità profetica dei suoi temi; l’aspetto profetico della sua scrittura avrà anche risvolti tragici, visto che Puskin morirà in un duello, come molti dei suoi protagonisti, a 37 anni, curiosamente alla stessa età di Mozart, alla cui scomparsa aveva dedicato l’opera Mozart e Salieri, la versione letteraria che darà adito a una leggenda nera di grande successo: ispirerà nel tempo un’opera del 1897 di Rimskij-Korsakov e la pièce teatrale di Peter Shaffer del ’78, da cui poi Miloš Forman farà derivare il celebre film Amadeus del 1984.

Pagato il giusto tributo a Puskin, parliamo della versione di Pëtr Il’ič Čajkovskij, che è andata in scena nella versione originale nei mesi scorsi alla Scala di Milano con la regia di Mario Martone e la direzione di Timur Zangiev. Il soggetto fu ispirato al compositore dalla cantante d’opera Elizaveta Lavrovskaja: Čajkovskij, dopo alcuni dubbi iniziali, si dedicò con travolgente passione all’opera (andata in scena per la prima volta nel 1879) fino a scrivere in una lettera a Sergej Taneev: “Se è mai stata composta una musica con passione sincera, con amore per la storia e i personaggi, quella è la musica per l’Onegin”.

Arriviamo finalmente alla coreografia di John Cranko, che debuttò nel 1965 allo Staatsoper di Stoccarda, dopo una serie rocambolesca di rifiuti: il maestro sudafricano chiederà al suo storico collaboratore Kurt-Heinz Stolze di riarrangiare una selezione di brani di Čajkovskij, 28 numeri tratti da pagine pianistiche, sinfoniche e operistiche. La coreografia spazia con grande equilibrio tra danze popolari e atmosfere aristocratiche, con la grande attenzione allo scavo psicologico nella gestualità, tratto drammatico tipico di Cranko; una profonda cura all’espressione delle emozioni, pur nella versatilità stilistica che lo rende il coreografo ideale per tradurre i grandi temi romantici di Puskin e la varietà entusiasmante delle partiture ciaikovskiane.

Come disse lo stesso Cranko: “un vero balletto narrativo è tale che, se arrivi tardi in teatro, le luci si sono abbassate, non conosci la trama e non puoi leggere il programma di sala, dovresti comunque poter capire quanto accade sul palco”. E questo è, infatti, l’incanto meraviglioso del balletto, in questo caso anche grazie alla sapiente direzione di Philip Ellis, all’eleganza delle scene e i costumi di Elizabeth Dalton.

Ho avuto il privilegio di assistere alla prima romana, dove per la prima volta si sono potuti ammirare insieme due star internazionali come Nicoletta Manni e Friedemann Vogel; l’étoile della Scala ovviamente nel ruolo di Tatiana (proprio l’interpretazione che le ha meritato giustamente tale status), in quello del protagonista tormentato dal suo ego proprio la star del Balletto di Stoccarda, reso grande proprio dal magistero di Cranko (il “miracolo di Stoccarda”, interrotto dalla sua misteriosa scomparsa nel 1973). Da ricordare come il supervisore coreografico di questo balletto sia Reid Anderson-Graefe (garanzia di fedeltà filologica a Cranko), assistito da Yseult Lendvai, storica interprete della protagonista.

Non voglio apparire ripetitivo: come l’anno scorso spesso criticavo l’eccesso di modernizzazione sterile delle rappresentazioni, quest’anno, pur in diversi ambiti, ogni volta che mi reco al Costanzi è un’immersione nella meraviglia.

Photo credit: Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma

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