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Tacendo su Gaza e i palestinesi, l’Occidente civile e cristiano si è definitivamente estinto

"Israele non è una democrazia, come non lo sono gli Usa o l’Europa, come non lo siamo noi che ci giriamo dall’altra parte"
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Da 80 anni l’Occidente “civile”, patria del Diritto, non si è degnato di un colpo di tosse sulla sventura di Gaza e dei Palestinesi che da 80 anni sono scippati della loro terra, per altro assegnata dall’Onu; lo stesso che ha riconosciuto, contestualmente, a Israele il diritto di “ritornare a casa”. Diritto naturale, dopo le espulsioni romane, l’ostracismo cristiano, lo sfruttamento cattolico e il genocidio scientifico di Hitler e Mussolini.

Tutto quello che Israele patì dall’Occidente civile e cristiano, Israele lo ha riversato sui Palestinesi e oggi su Gaza, con la stessa volontà omicida parallela a quella nazista: sradicare per sempre un popolo da una terra in cui è nato, ma di cui non può essere nemmeno usufruttuario.

Ottant’anni è la vita di una persona robusta (Salmo 90/89,10). Il 7 ottobre lo si è ripetuto a proposito e a sproposito, per avere le credenziali che non siamo preventivamente “ostativi” nei confronti di Israele. Da 60 anni studio l’Israele biblico, che ho saputo sempre distinguere dal governo d’Israele che oggi è Netanyahu e domani sarà chi sarà. Qui non ci sono i forni crematori, qui il fuoco lo si porta direttamente a casa per il solo fatto di essere Palestinesi, cioè “abusivi” che occupano abusivamente la “ha-Eretz Israel” – la Terra d’Israele, donata da Dio, dopo averla sottratta e rubata ai Cananei. “Terra nostra” e di nessun altro, contro ogni diritto naturale e giuridico.

Se l’obiettivo di Netanyahu è la distruzione dei Palestinesi, come chiamarlo se non con l’unico termine che accomuna i due popoli “fratelli gemelli”, cioè genocidio? Fino al 7 ottobre, c’era una logica intrinseca nel riservare il lemma all’unica mostruosa decisione scientifica programmata politicamente di “sterminio di un intero popolo”. Ora, dopo la decisione del governo Netanyahu di ridurre in macerie Gaza e distruggere il popolo palestinese, quel lemma sacro e vituperato, unico e intoccabile, diventa “patrimonio dell’umanità”, là dove Israele vuole distruggere il proprio “gemello”: genocidio. Non c’è sovrapposizione, nemmeno letteraria, ma convergenza semantica, storica, morale, segnata dalla “vendetta 70 volte 7”.

Da quando è iniziata la carneficina di Hamas, il 7 ottobre 2023, ho perso la parola e non ho saputo, non ho potuto dire parole di sdegno, rivolta, emozioni, commozione nel vedere giovani sgozzati come pecore, colpevoli di volersi divertire, ma nel luogo sbagliato fin dal principio. Non si va a ballare ai confini di Gaza, quasi a dire “qui i padroni siamo noi”. Ogni parola mi si seccava in bocca, come la lingua degli ebrei si seccò nelle loro gole, quando furono deportati a Babilonia (sec. VII a.C.) e gli aguzzini chiedevano: “cantateci i canti di Sion. Come cantare i canti del Signore in terra straniera?” (Salmo 137/136).

Forse quei ragazzi non immaginavano resistenza alcuna, perché da 80 anni erano abituati, di generazione in generazione, ad espellere dalla West Bank, a distruggere villaggi e alberi di carrube e fichi d’india (segni arabi per eccellenza) e sostituirli con insediamenti israeliani, rendendo impossibile la delibera Onu 67/19 del 29/11/2012 che riconosce lo Stato Palestinese, in combinato con la risoluzione 2334/2016 del 23/12/2016 che impone a Israele di porre fine agli insediamenti nei territori palestinesi, compresa Gerusalemme. Come parlare al vento.

L’Occidente civile e chi si appella a Dio o alle radici cristiane ha dichiarato ufficialmente la propria estinzione, strettamente legata alla sorte di Gaza: dalla montagna di 50mila morti, 51 con i morti ebrei del 7 ottobre (i morti non hanno colore, ma solo dolore e morte!), il genocidio della Shoah che grida sempre “Mai più/Per non dimenticare” e il genocidio dei palestinesi (bambini, giovani, donne, uomini vecchi e anche animali) ci perseguitano, lungo il cammino della vendetta e solo vendetta, riportandoci al monito del pastore tedesco, Martin Niemöller (1892-1984), che in una omelia del 1946 ebbe a dire questa parole da scolpire nell’orrore palestinese, nell’abisso di Gaza e nell’ignominia del 7 ottobre. Tutti legati insieme con un filo rosso scarlatto, segno e simbolo di un peccato che non risparmia nessuno: “Caino, dov’è Abele tuo fratello? I suoi sangui (plurale) gridano a me dal suolo” (Genesi 4,10).

Grida il Pastore Martin Niemöller: “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”.

Pur consapevole di essere voce di un grido strozzato nel deserto di chi blatera e commenta senza conoscere nulla, personalmente resto ai bordi del sepolcro di Gesù e mi lascio pervadere dalla vergogna mia e dalla certezza che Israele non è una democrazia, come non lo sono gli Usa, come non lo è l’Europa, come non lo siamo noi, che facciamo finta di illuderci, e, in attesa di un altro dibattito, ci giriamo dall’altra parte, perché i Palestinesi sono lontani, l’Ucraina? “sapevamo che finiva così!”, i democratici Usa non mantengono la parola data. È il principio della fine e la fine di tutte le falsità. Ah, Europa!

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