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Orfani di femminicidio, le vittime dimenticate della violenza. Parliamone

Nel luglio 2013 mia sorella Tiziana è stata uccisa. Da allora, con mia moglie e mia figlia, abbiamo accolto in casa suo figlio. Per adottarlo ci sono voluti più di otto anni
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Nel luglio 2013 mia sorella Tiziana è stata uccisa. Da allora, con mia moglie e mia figlia, abbiamo accolto in casa suo figlio. Per adottarlo ci sono voluti più di otto anni. Otto anni di udienze, burocrazia, attese. Non abbiamo ricevuto nessun tipo di supporto dallo Stato per la psicoterapia, né per le spese scolastiche o di vita quotidiana. Anche in presenza di un’eredità, questa non è gestibile liberamente: tutto passa dal giudice tutelare, con tempi che possono superare l’anno per ottenere un appuntamento con il giudice. Intanto tutto si blocca.

Le banche non sanno come gestire questi “casi speciali”, e ogni semplice richiesta si trasforma in un percorso a ostacoli fatto di lettere, avvocati (da pagare), attese.

Dal 2013, altre 1300 donne sono state uccise in Italia per mano di partner o ex partner. E sono almeno 2000 bambini e bambine gli orfani di femminicidio. La più parte sono invisibili, fuori da qualsiasi registro nazionale. Non esistono per lo Stato.

Un bambino o adolescente che perde la madre a causa di un femminicidio non è semplicemente un “orfano”: è un sopravvissuto.
Ha vissuto all’interno di un contesto familiare violento, spesso per anni, assistendo a maltrattamenti fisici e psicologici, e sviluppando una forma di adattamento al trauma basata sulla paura, sul silenzio, sull’invisibilità.

Ma il trauma non finisce lì. Inizia una seconda parte della storia: l’abbandono istituzionale. Elaborare un trauma simile non è automatico. Servono interventi psicologici integrati, personalizzati, e il più possibile tempestivi. La psicologia dell’età evolutiva ci insegna che un bambino può uscire da un’esperienza potenzialmente distruttiva solo se ha accanto adulti stabili, capaci di riconoscere il dolore e di accompagnarlo.
Servono luoghi sicuri in cui parlare, raccontare, piangere. Servono psicoterapeuti formati nel trauma, capaci di ascoltare anche il silenzio.

Per questo chiedo con forza che venga istituito un tavolo interministeriale permanente, con il coinvolgimento diretto di chi questa realtà la vive ogni giorno. Non bastano più leggi sulla carta. Serve ascolto, presenza, azione concreta. Serve che la tutela dei figli delle donne uccise diventi una priorità nazionale.

Non vogliamo restare soli. Non vogliamo più essere considerati eccezioni burocratiche. Vogliamo essere parte delle scelte. Perché la giustizia, quella vera, inizia da chi sopravvive. Parliamone.

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