La Turchia, oltre ad essere un Paese bellissimo, abitato da popoli formati da gente onesta e cordiale, è anche per vari versi un laboratorio istituzionale al quale guardano con invidia i peggiori arnesi della destra europea. In questo senso ben si può dire che Erdogan sia un Giorgio Meloni, che almeno per il momento ce l’ha fatta.

In Turchia infatti la magistratura non ha nemmeno un barlume di indipendenza ma è totalmente asservita al potere politico, mentre il Parlamento è di fatto sottomesso al potere esecutivo e la mannaia della repressione colpisce da tempo inesorabilmente ogni forza che decida di scendere sul terreno dell’opposizione politica o sociale, pur salvaguardando un certo bipolarismo, per il momento senza alternanza, tra il blocco di Erdogan e quello imperniato sul concorrente Chp (Partito repubblicano del popolo), mentre vengono sbattuti in galera coloro che come i deputati dell’Hdp (Partito democratico dei popoli, espressione di un’ampia coalizione di forze kurde e variamente di sinistra) ambiscono a un effettivo rinnovamento democratico del Paese.

Insomma per molti versi un sogno bagnato per Meloni, Nordio & C. con giudici in ginocchio e premierato senza limiti, anche se la forma di governo è da qualche tempo prettamente presidenzialista.

Una precisa conferma di tale situazione, in particolare per quanto riguarda il deplorevole stato della magistratura, l’ho avuta partecipando ieri, come osservatore internazionale, all’undicesima e ultima udienza del processo, durato ben nove anni, per l’assassinio del presidente dell’Ordine degli Avvocati di Diyarbakir, capitale kurda del Paese, Tahir Elçi, ucciso durante una sua conferenza stampa dopo essere stato più volte arrestato, torturato e apertamente minacciato per il suo ruolo di difensore delle vittime della guerra sporca tra regime e guerriglia kurda, organizzata nel Partito dei lavoratori kurdi (Pkk) che va avanti da oltre quarant’anni.

Nei nove anni di svolgimento del processo il tribunale non ha svolto nessuna attività istruttoria significativa, addirittura rifiutandosi di acquisire testimonianze e perizie, molto probabilmente nell’intento di nascondere le responsabilità degli apparati repressivi nell’uccisione di Tahir Elçi. Fatto sta che ieri il tribunale ha infine deciso di assolvere i tre ufficiali di polizia che ne erano imputati. Un non liquet davvero sfacciato, tenendo conto del fatto che il crimine è stato ripreso da varie telecamere, anche se le parti più rilevanti dei relativi filmati sono “inspiegabilmente” sparite.

Certo vi sono enormi differenze di varia natura tra la Turchia e il nostro Paese, eppure gli attuali governi hanno in comune un’indubbia propensione autoritaria. In Italia tale propensione è acutizzata dalla voglia di rinverdire i fasti del fascismo che traspare con sempre maggiore frequenza ed evidenza da vari episodi, da ultimo il codardo pestaggio inflitto da parlamentari leghisti in funzione di picchiatori a un deputato pentastellato che si era permesso di protestare contro la frantumazione dello Stato italiano, che deriverebbe dall’attuazione dello sciagurato disegno della cosiddetta autonomia differenziata.

Questo costituisce la terza punta dell’acuminato tridente che il governo Meloni, come altri prima di lui, sta puntando al cuore della Costituzione e della democrazia italiana. Gli altri due sono per l’appunto la fine dell’indipendenza della magistratura, a partire dalla cosiddetta separazione delle carriere, e il cosiddetto premierato e cioè la supremazia assoluta dell’esecutivo sul Parlamento e la riduzione caricaturale della democrazia a elezione periodica dell’individuo cui la maggioranza del popolo delega ogni potere.

Per altri versi occorre riconoscere come la Turchia attuò una politica estera spregiudicata e intelligente e si sia per varie ragioni, non ultima la comprensibile irritazione di Erdogan per il presunto coinvolgimento Usa nel tentato golpe del 2016, in buona misura emancipata dal ruolo di ostinato reggicoda della Nato che spetta invece oggi senza dubbio alla fidata cagnolina di Biden (e domani forse di Trump) che risponde al nome di Giorgia Meloni – che però in questo riceve anche il pieno appoggio del Pd, tuttora infarcito di fedeli atlantisti e fautori del riarmo, a maggior gloria e profitti di Leonardo e degli altri apocalittici protagonisti del complesso militare-industriale italiano.

In conclusione, le lezioni che vengono dalla Turchia sono varie e istruttive. La principale, per le forze che continuano nonostante tutto a credere nei principi costituzionali, è quella di deodorare il nostro Paese dalla persistente e montante puzza di fascismo, contrastando apertamente e frontalmente il tridente anticostituzionale rappresentato da premierato, autonomia indifferenziata e separazione delle carriere, come pure i nauseabondi spiriti animali dello squadrismo violento che covano negli improvvisati doppiopetti della pessima coalizione di destra e la tendenza al riarmo e alla guerra che ne costituisce il mefitico brodo di cultura e che condivide coi centristi e la peggiore, ma tuttora egemone sul punto, parte del Pd.

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