Grosso guaio a Mainettitown. Il regista di Lo chiamavano Jeeg Robot l’ha combinata bella, ma bella bella. La città proibita, terza attesa regia di Gabriele Mainetti, è uno di quei film spassosi che andrete a rivedere su grande schermo due, tre, quattro volte. E anche quando passerà in streaming o in tv lo rivedrete pure in sottofondo mentre preparate l’amatriciana. Più di Jeeg. Più, ovviamente, di Freaks Out (perché dei nazisti anche basta). E lo farete perché La città proibita è il film in cui Mainetti si distende finalmente (e totalmente) nella sua dimensione estetica dell’action con invidiabile naturalezza tecnica e perfetta misura, in cui l’elegante principio plastico del kung fu si sovrappone alla ruvidità delle botte di Bud Spencer e Terence Hill, dove Bruce Lee si specchia in Francesco Totti in taroccate foto di scena (nel loro piccolo, chapeau), e Wong kar-wai viene intinto nella trap.
La giovane cinese Mei (Yaxi Liu) giunge clandestinamente negli anfratti labirintici di un ristorante cinese dell’Esquilino a Roma, ventre violento e disumanizzato tra prostituzione, merce contraffatta e traffico di persone, con un solo ostinato obiettivo, e una sola linea di dialogo: “Dov’è mia sorella?”. Chiunque la incroci, e sono solo sgherri cinesi dotati di coltello, finisce steso, ferito, menato a dovere. Grazie ai suggerimenti di un’anziana maitresse la misteriosa ragazza scopre che nella scomparsa della sorella c’entrano i tizi che gestiscono il ristorante romano a pochi passi dalla Città Proibita: il giovane oberato cuoco Marcello (Enrico Borello), sua madre Lorena (Sabrina Ferilli) cassiera svampita e fatalona, e il padre Alfredo (Nicola Zingaretti) anch’esso da tempo scomparso. Mei si presenterà furiosa tra pentolame e sughi bollenti, ma dovrà fare i conti sia con il cinico strozzino amico di famiglia Annibale (Marco Giallini) e di nuovo con il gestore plenipotenziario della Città Proibita, Mr. Wang (Chunyu Shanshan), spietato e sanguinario boss cinese di quartiere (romano!) che ha un solo debole: quello per il figlio che canta la trap e che lui balla con elegiaco disincanto (apice delle trovate bizzarre nel film).
I destini di Mei e Marcello si incroceranno dapprima scontrandosi senza capirsi (altro dettaglio meraviglia: dialogano con un traduttore simultaneo sullo smartphone), poi la vendetta cercata da entrambi si fonderà perfino nell’amore. Quattro robusti blocchi di azione purissima, ariosa, credibile, mai ripetitiva, addirittura con uno scambio d’uso di oggetti per fare a botte (i cd di contrabbando spezzati nella lunga imperiosa sequenza iniziale; gli ortaggi in quella del mercato; catene e pietre nello spazio industriale dismesso finale) sono lo scheletro tumultuoso e dinamico del film; poi Mainetti, con Stefano Bises e Davide Serino, tagliano e cuciono l’abito romano, e romanesco, di La città proibita sfumando su un Giallini finemente caligariano, stampigliando con energia le tracce mefitiche di un villain straniero di spaventoso carisma, andandosi a riprendere con rispetto e passione le traiettorie della memoria tra Vacanze Romane e Angeli perduti (mirabile il sassolino nella scarpa: “Roma è piena di fontane, di buche, di sampietrini, di stronzi”, dice Marcello in motorino).
La sfiziosa singolarità di Mainetti sta tutta nel creare un affascinante genere ibrido (il “menare italiano”) che paradossalmente è anche un prezioso imperdibile unicum. Niente banali compitini politici (la comunità cinese sarà felice, sicuro), briglia creativa sciolta, vfx ovunque ed impeccabili, soundtrack con Giallini che suona Tenco e fa capolino Delilah in cinese, cappuccio della felpa in testa per tutti e via. La stella era già nata qualche anno fa. E se, come dice qualcuno, la forma è il futuro del cinema: Mainetti è (presente e) futuro del cinema.