I pm di Pavia sono convinti che il Dna di Andrea Sempio, indagato per la morte di Chiara Poggi, trovato sulle unghie della vittima sono sia stato trasferito da un oggetto – per esempio la tastiera del pc con cui giocavano l’indagato e il fratello della vittima – ma sia da contatto. Margini delle unghie su cui c’era un altro profilo ignoto. Mentre non c’era Dna di Alberto Stasi. Dall’altra parte, Francesco De Stefano, perito nell’appello bis sul caso Garlasco che portò alla condanna a 16 anni dell’allora studente bocconiano, si disse convinto che invece c’era stato un trasferimento: “Sono stato consulente per l’accusa nell’omicidio sul caso Rostagno in cui si sono ottenuti dati sul Dna analizzando un oggetto toccato dall’indagato 27 anni prima“.

La tastiera e il mouse di quel computer, che i carabinieri del Nucleo investigativo di Milano, nelle indagini riaperte a Pavia, stanno cercando con poche speranze, sono solo due degli oggetti presi in considerazione dagli inquirenti in questa sorta di “caccia al tesoro”, per rianalizzare ciò che si è salvato dei vecchi reperti. Perché il Dna prelevato a Sempio andrà comparato, come indicato dal giudice per le indagini preliminari e richiesto dall’aggiunto Stefano Civardi e dalla pm Valentina De Stefano, con tutte le “ulteriori tracce di natura biologica rinvenute sulla scena del crimine“, con quello che resta anche solo a livello documentale. E ciò darà il via, in sostanza, ad un confronto serrato tra consulenti.

Per prima cosa, a inizio settimana la Procura conferirà l’incarico, verosimilmente a Carlo Previderè, gentista del caso Yara, per l’accertamento irripetibile su estrazione e match del Dna con gli esiti sul materiale rilevato su Chiara Poggi. Poi, dopo aver già effettuato una propria consulenza sulla comparazione tra i profili genetici dopo “l’impulso” della difesa Stasi, gli inquirenti disporranno pure un altro accertamento per dimostrare che quell’ormai nota impronta di scarpe, con suole a pallini, può riferirsi anche ad un numero maggiore del 42, che indossava Alberto, fino al 44 che calzava Sempio. Si cercano anche dei mozziconi di sigaretta, che vennero fotografati in un posacenere della casa ma non sarebbero stati repertati, come si punta sugli esiti di una traccia biologica rintracciata sul tappetino del bagno e su tutte le varie impronte. La fascette adesive utilizzate per rilevarle sono state recuperate e andranno rivalutate pure le verifiche dell’epoca su alcuni capelli.

Proseguiranno le audizioni dei testimoni, compresi i genitori di Chiara, tutti già sentiti in questi 18 anni più volte, come Marco Poggi e i suoi amici, ascoltati ancora nei giorni scorsi. Sempio, pronto semmai anche a farsi interrogare, è più “preoccupato per l’incubo che sta rivivendo” la famiglia Poggi che per sé stesso, mentre il fratello di Chiara cerca di dargli “conforto”. Stasi dal carcere spera che la sua responsabilità, accertata dalla Cassazione nel 2015, possa essere spazzata via dalla nuova inchiesta e con una successiva richiesta di revisione del processo.

Da valutare, oltre agli “elementi nuovi” che la Procura guidata da Fabio Napoleone è convinta di avere in mano, c’è anche quell’alibi dello scontrino del parcheggio di Vigevano, che per i vecchi pm reggeva, così come le giustificazioni sulle tre chiamate partite dal cellulare di Sempio verso casa Poggi, il 4, il 7 e l’8 agosto, quando Marco e i genitori erano già in vacanza dal 5 agosto. Stando alle nuove indagini, inoltre, il pc della villetta non venne più acceso dal 10 agosto, ovvero la ragazza per tre giorni almeno, prima di essere uccisa, non venne più a contatto con la tastiera. E, dunque, quello trovato, per i pm, potrebbe essere il Dna dell’aggressore. Il perito De Stefano disse, invece, che era più “verosimile” sostenere un “trasferimento” mediato, da “oggetto a persona”, anche per il “quantitativo esiguo” e per la “discontinua distribuzione del Dna sulle dita”. Insomma, sarà una lunga battaglia che segnerà ancora il destino di molte persone, legate ad una morte atroce e ad un caso giudiziario che pare infinito.

Intanto in una relazione tecnica di parte, firmata dal consulente Oscar Ghizzoni, che nel 2020, per conto dell’allora legale di Stasi si legge che sul dispenser del sapone in bagno (era stato accertato che l’assassino si era lavato), oltre alle due impronte attribuite con certezza ad Alberto Stasi, ci sarebbe stato anche un “frammento papillare” denso “di informazione dattiloscopica”, ma “non è comprensibile il motivo per cui non sia stato utilizzato per un successivo confronto”. Più in generale, le “due impronte utili per il confronto dattiloscopico” erano “parzialmente sovrapposte ad altre impronte” e c’erano almeno altri sette “contatti papillari”.

Nella consulenza di parte si contesta il fatto che non siano state fatte analisi almeno su un frammento papillare che si ritiene leggibile: “Questo frammento avrebbe ugualmente potuto fornire un responso di compatibilità, o meno, con le impronte rilevate allo Stasi o altro soggetto”. Inoltre, la “porzione” di quell’impronta risultava “sovra-illuminata in luce radente, rendendo difficile il riconoscimento di alcune minuzie caratterizzanti la medesima”. E ciò per il “particolare posizionamento della lampada illuminante, che è stata sistemata in modo da favorire la ottimizzazione dei particolari delle due impronte utilizzate per il confronto con quelle dell’allora indagato, su cui si è concentrata la attenzione dei dattiloscopisti”. Il consulente scrive anche che “la presenza di molteplici e vari contatti e di colature di sapone portano ad escludere un lavaggio dell’oggetto nel corso del suo ultimo utilizzo”. Tesi che contrasta con la sentenza dell’appello bis sul caso Garlasco del 2014, definitiva dal 2015.

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