RAPIDO PEGGIORAMENTO. Lo dicono i dati e ce lo ricordano i colori: la pandemia da Covid in Italia sta subendo una nuova impennata (qui i numeri di giornata: boom di ricoverati). Preoccupante l’analisi della Fondazione Gimbe. Le Regioni stanno correndo ai ripari (la Lombardia passa in zona arancione scuro), ma sul Fatto di domani cercheremo di capire cosa hanno fatto (o dichiarato) nelle scorse settimane i governatori adesso in difficoltà (la stessa Lombardia è indietrissimo con tamponi e vaccini). E mentre il governo perde ancora tempo nell’approvazione del Decreto ristori 5, i dati Istat sono sconvolgenti: sono 5,6 milioni le persone che vivono in povertà assoluta.
MADE IN ITALY? Uno dei temi di cui si discute molto negli ultimi giorni è l’eventuale produzione di vaccini nel nostro Paese. Vedremo allora perché questo non è possibile, almeno nell’immediato, anche attraverso un esempio concreto di come, negli ultimi anni, in mancanza di investimenti sulla ricerca, Big Pharma abbia deciso di spostarsi all’estero.
ZINGARETTI LASCIA, IL PD ESPLODE. Mentre il Paese è di nuovo alle prese con ricoveri e morti, la politica si scanna. Con un post molto duro su Facebook, il segretario del Pd ha annunciato nel pomeriggio le sue dimissioni: “Lo stillicidio non finisce – ha scritto –. Mi vergogno che nel partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie. Visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito, non mi resta che fare l’ennesimo atto per sbloccare la situazione. Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità”.
Sette segretari in tredici anni: Pd, le pugnalate in un partito che non si decide a essere una cosa (qualsiasi)
di Salvatore Cannavò
Un’altra dimissione. Da quando il Pd è nato, nel 2007, ha avuto sette segretari, tutti uomini: Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pierluigi Bersani, Guglielmo Epifani, Matteo Renzi, Maurizio Martina e Nicola Zingaretti. Fra qualche giorno potrebbe esserci l’ottavo. Sette in 13 anni, 22 mesi ciascuno. Cos’altro serve per capire, e dirsi, che quel progetto, nato male e cresciuto peggio, non funziona?
Zingaretti si dimette perché non ne può più delle correnti interne, della lotta per le poltrone, delle pugnalate alle spalle. Si dimise per gli stessi motivi anche Veltroni, nel febbraio del 2009, a meno di due anni dalla sua trionfante elezione a segretario. Franceschini lo sostituì nell’interregno, candidandosi alle primarie successive, vinte però da Bersani. Il quale in seguito alla “non vittoria” del 2013, ma soprattutto dopo le pugnalate subite attorno all’elezione di Franco Marini e Romano Prodi alla Presidenza della Repubblica, lasciò anche Bersani consegnando lo scettro a Matteo Renzi dopo l’interregno di Epifani.
L’unico che non si è dovuto dimettere per manovre interne, se ci si pensa, è proprio l’ex segretario fiorentino il quale abbandona sia per la sconfitta del referendum costituzionale che per la mazzata elettorale del 2018 quando, grazie alla sua segreteria, il Pd raggiunge il punto più basso della sua storia. Quello in cui si trova oggi.
Zingaretti lascia certamente per un grado di slealtà interna evidente ai più, ma soprattutto per una ragione politica. Il Pd non vuole decidersi a essere una cosa, una qualsiasi cosa. Al suo interno ha i nostalgici di Renzi che pensano che il M5S sia il male assoluto e che sognano “costituenti riformiste” destinate a schiantarsi nelle urne, magari assemblando i vari perditempo liberali che ruotano attorno e che vorrebbero trovare un porto sicuro da cui farsi rieleggere. A sinistra c’è un gruppo, poco amalgamato e poco convinto, che ha una maggiore propensione sociale e per questa via disponibile a non rinnegare l’esperienza del governo Conte e il rapporto con i 5 Stelle. Ma non è una strada chiara, imboccata con sicurezza e capace di smuovere gli indecisi e offrire un’indicazione. Eppure anche un vecchio centrista liberale come Joe Biden, negli Usa, si sta battendo ora per ottenere il salario minimo orario a 15 dollari. Ve lo immaginate il Pd battersi per il salario minimo quando non riesce a spendersi decisamente per il Reddito di cittadinanza?
Eppure Zingaretti ha dato un volto umano a quel partito e ha gestito, con grande capacità, la fase difficilissima della formazione del governo Conte 2. Ne sta ora pagando il prezzo, come è già capitato all’ex presidente del Consiglio e ovviamente è la classica figura del perdente di valore. Le dimissioni, nel contesto da lui descritto, gli fanno onore, però sarebbe stato meglio vedere una vera contesa politica, una battaglia decisiva, per dare al Pd il suo futuro.
Così invece si profila una ritirata disastrosa con, magari, una segreteria Bonaccini che significherebbe la vittoria del renzismo che è in loro. Una strada senza particolare futuro che, addirittura, nel breve termine potrebbe beneficiare un M5S più orientato al sociale come la guida di Conte sembra promettere. A quel punto in Italia mancherebbe una sinistra anche nel suo significato più pallido e meno coinvolgente, un punto di svolta definitivo di una crisi che forse iniziò con Achille Occhetto alla Bolognina e non si è mai conclusa.
MA NEANCHE I 5S SI SENTONO TANTO BENE. Il punto di arrivo, meglio di fine, per molti sarà il 10 marzo, quando Rousseau, l’associazione guidata da Davide Casaleggio, lancerà il suo manifesto Controvento per “anteporre le riforme alle poltrone”. Immediate le reazioni di molti parlamentari, secondo i quali è ormai chiaro che il figlio di Gianroberto voglia proseguire per la sua strada (Il sottosegretario Sibilia: “L’addio alla fine ce lo ha dato Casaleggio”). Dall’altra parte, infatti, Grillo ribadisce che il Movimento ha fatto bene a entrare nel governo Draghi, che sarà giudicato a cose fatte. Leggerete un’intervista all’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Riccardo Fraccaro.
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