Morte e politica. Dolore e incognite, tante. La scomparsa di un leader, annunciata o improvvisa che sia, è sempre un processo al buio, in cui l’impatto emotivo e la successiva elaborazione del lutto possono produrre esiti contraddittori, se non opposti. Questione di tempi brevi e di tempi lunghi. Quando Enrico Berlinguer si accasciò su quel maledetto palco di Padova, per non riprendersi mai più, era il giugno del 1984. Il grande partito comunista era spaccato sul referendum per la scala mobile ma la scossa di quel trauma e dei maestosi funerali romani portò per la prima volta il Pci a superare la Dc. Accadde alle elezioni europee.
L’ultimo viaggio a Mosca e il diario postumo
Dodici anni fa, Massimo D’Alema scrisse un bel libretto per Donzelli: A Mosca l’ultima volta. Ossia il diario di un viaggio particolare nel 1984, per i funerali di Jurij Andropov. Sul volo di Stato per la capitale sovietica, D’Alema era l’esponente meno noto, all’epoca segretario regionale del Pci in Puglia. C’erano il capo dello Stato Sandro Pertini, Berlinguer e Giulio Andreotti. Il giovane “Massimo” tenne un diario che dopo vent’anni, appunto, divenne un piccolo volume. Punto d’arrivo, ovviamente, la morte del Compagno Segretario Generale a Padova. Ecco la scena madre per la sua generazione: “Eravamo più soli e, improvvisamente, adulti. Finiva una lunga, forse troppo lunga giovinezza”.
Il patto del garage a Botteghe Oscure
In quella frase, “forse troppo lunga giovinezza”, è racchiusa tutta l’ansia del ricambio (rottamazione direbbe qualcuno) che però all’improvviso trova la sua occasione nella morte, non nelle primarie. D’Alema era l’alfiere dell’ultima generazione berlingueriana e le cronache narrano del leggendario patto del garage tra lui e Achille Occhetto. Al ritorno dai funerali del Compagno Segretario, i due erano nella stessa auto e si ritrovarono nel parcheggio sotterraneo del Bottegone, antica sede del Pci nel centro di Roma. Nella vulgata i due si misero d’accordo su una staffetta per la guida del partito: prima a Occhetto, poi a D’Alema. In realtà la transizione fu difficile e il duello tra “Achille” e la destra migliorista portò a un’anomala vicesegreteria affidata al “frate” ligure Alessandro Natta. Recentemente Occhetto ha definito una fandonia il patto del garage: “Chiesi a D’Alema: ‘Adesso che cosa devo fare?’. Lui, senza fare trasparire alcuna emozione, mi rispose seccamente: ‘Mi pare evidente che ti tocca fare il segretario’. Non ci fu nessun patto”.
Almirante e il delfino designato: Fini
In politica, ci sono morti senza eredi come nel Pci berlingueriano e morti con eredi designati. È questo il caso del Movimento Sociale Italiano, il Msi nato sulle macerie fasciste di Salò. Giorgio Almirante ne era il leader indiscusso ma le sue condizioni di salute lo costrinsero, nel 1987, a indicare nel giovane Gianfranco Fini il delfino prescelto. Almirante morì un anno dopo e Fini iniziò la sua leadership tratteggiando il fascismo del duemila. Invece, un lustro e passa prima del nuovo millennio, successe qualcosa di diverso: la Prima Repubblica crollò e Silvio Berlusconi sdoganò il ghetto missino. Fini portò al potere una generazione di colonnelli, da Gasparri a Storace, da La Russa al rautiano Alemanno, fino alla fusione con Forza Italia. La sintesi di donn’Assunta Almirante è stata spietata: “Hanno distrutto tutto quello che mio marito aveva creato”. Perché il valore, lo spessore e la visione di un leader e della sua classe dirigente si misurano sempre sui tempi lunghi. E il destino della destra italiana, nella Seconda Repubblica, è stato simmetrico, speculare a quello dell’ultima generazione berlingueriana. Da un lato è arrivato il bambino democristiano che si è mangiato i comunisti. Dall’altro, l’ex Cavaliere ha cannibalizzato tutto, fino all’estinzione.
L’ictus di Bossi e il declino della Lega
L’11 marzo 2004, lo stesso giorno degli attentati alla stazione Atocha di Madrid, Umberto Bossi venne colpito da un ictus. Non morì, ma la grave malattia del capo carismatico della Lega innescò un’imprevista parabola discendente per il Carroccio. Il partito si consegnò mani e piedi alle faide intestine. Ufficialmente c’era una diarchia formata dal varesino Roberto Maroni e dal bergamasco Roberto Calderoli, ma il potere reale finì tutto al fatidico cerchio magico della moglie di Bossi. L’inedita gestione familista ha provocato scandali e inchieste e la Lega è stata sul punto di scomparire. Poi l’avvento di Matteo Salvini ha scritto tutta un’altra storia.