È venerdì, il weekend è quello prima del 25 aprile: per andar da Roma a Milano c’è un solo treno con posti liberi, alle 6 di mattina, a 80 euro. Impossibile, invece, il ritorno in serata: tutto pieno, l’unica soluzione è un interregionale notturno con un cambio alle 2 di notte. Partenza alle 23, arrivo alle 6 del giorno dopo. Il suggerimento più comune in rete è Blablacar, la piattaforma di car pooling per condividere passaggi in auto dividendo le spese. Anche qui, però, sembra tutto completo, nonostante i passaggi sulla tratta Milano-Roma siano centinaia. Si riesce a prenotare solo grazie a un annuncio last minute: Alessandro ha ancora due posti. Dal suo profilo si apprende che è una persona a cui piace chiacchierare (è contrassegnato con un Blablabla) e che non vuole si fumi in auto.
I suoi feedback sono positivi. La prenotazione e il passaggio si pagano online: 35 euro. Oltre ad Alessandro, in auto ci sono la sua fidanzata (entrambi 27enni, lavorano per una nota marca di cosmetici e tornano a Roma perché è nata loro una nipotina) e un’altra ragazza che lavora a Milano da qualche mese: si occupa della campagna elettorale di Beppe Sala a sindaco. Blablacar, per loro, ormai è un’abitudine: “Più economico e flessibile”, spiegano.
La sede locale e il mercato italiano
A Milano, al quinto piano di un palazzo in corso di Porta Romana, c’è la sede italiana di Blablacar: scritte ovunque, pouf multicolor con le rotelle che se uniti formano la sagoma di un’auto, open space, pareti trasparenti, scrivanie e una grande cucina: attorno all’enorme tavolo quadrato in legno del “Blabla-bar” ogni venerdì mattina si tengono colazioni aperte anche ad altre startup. Sul maxi-schermo, usato per le riunioni globali, scorrono i volti dei dipendenti sparsi in ogni parte del mondo, dalla Russia al Brasile, che nel mese in corso compiono gli anni. Lungo una delle pareti, due cabine rosse e insonorizzate: “Sono le nostre phone box – spiega Silvia Conti, classe 1982 e addetta alla comunicazione – ci si rifugia lì per parlare al telefono senza disturbare gli altri”. Nella zona di lavoro, c’è silenzio. Sono almeno 12: si lavora sul marketing, durante la giornata arrivano pacchi contenenti attrezzature da cucina: “Nei prossimi giorni lanceremo una campagna con una serie di video sulla cucina da viaggio”. Lo hanno deciso con un sondaggio nella loro community virtuale: gli utenti di Blablacar condividono il cibo in viaggio. E così coinvolgeranno un foodblogger per una serie di video con ricette da auto. L’età media è 29 anni. C’è chi segue anche i corsi all’università. Si entra con uno stage estivo e ci si resta. Il country manager, Andrea Saviane, ha 32 anni racconta come si è sviluppata l’azienda in Italia, l’acquisizione della startup esistente che si chiamava postoinauto.it, la sua crescita veloce, la motivazione. “La rivoluzione della sharing economy sta accadendo. Non è un prodotto, ma un’abitudine che cambia la vita delle persone”.
Una startup o una multinazionale?
La sua crescita è inarrestabile: 25 milioni di utenti, più di 11 solo in Europa. Fondata a Parigi nel 2006, vale 1,6 miliardi. “Essere in crescita significa che ogni mese aumenta il numero di persone che prova il servizio per la prima volta rispetto al mese precedente. Blablacar si è allargata entrando nei mercati dei vari Paesi e acquisendo le startup già esistenti. Nel 2015, ad esempio, ha inglobato la concorrenza acquistando il suo principale concorrente tedesco, Carpooling.com e la startup ungherese AutoHop. “Ci sono diversi motivi nel successo del ride sharing: il primo di tutti è il risparmio rispetto al viaggiare da soli o a pagare i mezzi pubblici – spiega Saviane –. In Italia, poi, si viaggia molto più velocemente in auto: tra Trento e Ferrara non ci sono treni diretti. E neanche tra Calabria e Puglia. Tutti hanno un’auto”. Blablacar si considera una startup: forse una delle più finanziate d’Europa, tanto che l’ultima raccolta è stata di circa 200 milioni. Ma ormai è presente in 22 Paesi: anche se non produce ancora utili, è nel pieno di una grande trasformazione, da tenere d’occhio.
“Non siamo Uber”: inattaccabili (per ora)
Parte da qui la riflessione sulla sharing economy legata al trasporto in Italia. Uber Pop, il servizio che permette ai guidatori di offrire passaggi in auto in cambio di una tariffa, è stato bloccato da una sentenza del tribunale di Milano ed è costantemente monitorata dai tassisti preoccupati del rischio di concorrenza sleale. Il 5 maggio, a Milano, si sono fermati per protesta. Parlavano dell’esistenza di una circolare del ministero dell’interno che permetterebbe a Uber Pop di essere attiva, ai normali guidatori di dare passaggi in auto in cambio di una tariffa molto inferiore a quella dei taxi, senza essere sanzionati. Il giorno successivo, il Viminale è stato costretto a emettere una nota che confermava la linea dura delle prefetture nel contrastare “chi utilizza un mezzo privato per svolgere un servizio pubblico non autorizzato, come il trasporto di persone attraverso nuove forme di organizzazione e gestione telematica Uber e Uber pop”. La multa può arrivare a 335 euro.
Così, mentre si contesta il ride sharing, cresce il car pooling. In Italia c’è ad esempio Jojob, una startup dell’incubatore del Politecnico di Torino che sfrutta le norme italiane sul mobility management per le aziende per ridurre l’uso dell’auto privata. Al momento, il servizio è stato attivato da 73 aziende e coinvolge 57 mila dipendenti. C’è Zego, il “carpooling urbano istantaneo, attivo in quattro città italiane (Milano, Torino, Genova e Padova) con 20mila utenti registrati. Il principio è che i rimborsi non costituiscano una fonte di reddito professionale. GoGoBus, startup italiana nata un anno fa, ha duemila utenti: ci si prenota online, si sceglie una destinazione (o se ne propone una ) il viaggio si attiva quando le adesioni raggiungono almeno 19 passeggeri, con la collaborazione di società di noleggio autobus.
Nel cuore delle polemiche europee
A Parigi, sede delle più accese polemiche contro Uber, risse e automobili incendiate, in rue Ménars c’è il quartier generale di Bla Bla Car: tre piani, pareti bianche e grandi finestre. Nell’atrio c’è un albero su cui metteranno presto degli uccellini, dietro una parete, la macchinetta per le foto istantanee. Ovunque, frasi motivazionali. Il motto è Fun and serious, allegro e serio. Anche qui, silenzio e concentrazione contrastano con l’eccentricità degli spazi relax. Cerchiamo di capire perché un’azienda permette di condividere passaggi in auto non sia vittima, come Uber, dell’ira delle lobby del trasporto pubblico.
La risposta è che Blablacar è ancora sharing economy nella sua accezione più pura: diversamente da Uber, non prevede un sistema di profitto per il guidatore. Se il guidatore prova ad aumentare i prezzo della tratta, o a diminuirlo troppo o troppo spesso, viene espulso dalla piattaforma. Così Blablacar, almeno per il momento, resta fuori dal ciclone che si abbatte sulla sharing economy: solo in Spagna, la Confebus (associazione di categoria che riunisce le aziende di trasporto in autobus) ha accusato l’azienda di concorrenza sleale. “Quando si parla di sharing economy oggi – spiega il Ceo Frederic Mazzella – si fa spesso riferimento a piattaforme online su cui metti cose e contenuti da condividere, dalla musica agli oggetti, ai soldi per il crowdfunding. Uber è una piattaforma di freelance, le persone mettono a disposizione il proprio tempo. Noi invece condividiamo i costi, i membri di Blablacar non hanno alcun profitto e il costo è molto inferiore a quello di Uber, quasi 22 volte più economico. Non paghi il tempo ma condividi i costi. È diverso”.
Questo unicorno europeo (come sono definite aziende non quotate con valore superiore al miliardo di dollari) non sembra essere pronto a lasciare la sua identità di startup: “Lo siamo nello spirito”, dice Mazzella se gli si fa notare che ormai sono molto più simili a una grande multinazionale che di un’azienda alle prime armi. Anche perché Blablacar inizierà presto a produrre utili. Se fino all’anno scorso metteva solo in comunicazione chi cercava e offriva passaggi, e si pagava in contanti alla fine del viaggio, ora si inizia a monetizzare con il pagamento online. “Finora abbiamo vissuto di investimenti – spiegano in Italia -, adesso prendiamo una commissione del 10 per cento. Da un lato i viaggiatori non si ritirano più all’ultimo momento, dall’altro si crea profitto per l’azienda”. È l’unica fonte di guadagno. Dopo aver provato sei modelli di business, si sono fermati alle commissioni. “Non traffichiamo con i dati né con le pubblicità: un’azienda ci aveva chiesto di mettere in evidenza il numero di passaggi dati con le loro auto. Abbiamo rifiutato”. Ma è nata una partnership con le assicurazioni, come quella con la francese Axa che voleva entrare nel mondo della sharing economy”. Il futuro? Continuare a crescere: “Coprire lunghe distanze, assicurare risparmio, espanderci geograficamente. E accrescere la fiducia tra le persone – conclude Mazzella –. Siamo ancora una startup: negarlo è come negare che non si può essere giovani dentro”.