In che cosa ha sbagliato Obama? Perché c’è tensione, euforia e paura nell’attesa del nuovo candidato, ma non per la sua uscita definitiva dalla politica americana e del mondo? Obama vive alla testa di un grande Paese industriale con il tasso più basso di disoccupazione del mondo (5 per cento) e il tasso più alto di innovazione, circondato da una calma indifferenza senza rimpianti. Uno straordinario personaggio ha attraversato la scena del mondo e quella del suo Paese non solo senza fare danni, dopo la disastrosa presidenza di George W. Bush, ma correggendo dovunque possibile gli errori, e fronteggiando sfide pericolose e del tutto ignote senza l’automatica risposta della potenza e della guerra.
C’è un fenomeno che raramente viene notato: dopo quattro ininterrotti decenni, il diffuso pregiudizio anti-americano (l’America scritta con il K, colpevole, di tutto) non esiste più. Lo fa notare Massimo Teodori nel suo libro Obama il Grande (Marsilio, 2016) il cui titolo è deliberatamente ambiguo, fra celebrazione e scetticismo, i due territori in cui abita Obama uscente, esplorati, nel saggio, in molti aspetti di solito trascurati.
L’America di Obama non è più l’imputato del mondo (soprattutto sul versante giovane dei Paesi affini, democratici e produttivi). Ma un’imputazione c’è, ed è radicalmente diversa: Obama non ci difende, non manda soldati, non fa la guerra. Per capire l’apparente assurdità di un simile risentimento, non basta il luogo comune (purtroppo diffuso) che percepisce come uomo vero chi sa rispondere subito (o anticipare il colpo) con le armi, e considera persona debole chi cerca di capire gli eventi prima di reagire in modi efficaci e possibili. Occorre ricordare la conseguenza più grave e meno prevista delle folli iniziative della presidenza Bush e del suo governare (e fare prontamente una guerra lunga e distruttiva) con false accuse, falsi documenti e complicità mai chiarite, come quella del primo ministro inglese Tony Blair.
Neppure gli esperti dei più stimati sistemi di intelligence del mondo occidentale avevano previsto l’esplosione del mondo arabo, la creazione di uno Stato arabo o Califfato, una finzione macabra, dati i morti che provoca, e il terrorismo che esegue o minaccia, ma efficace per sconvolgere o tenere sotto scacco il nemico, cioè tutti. Obama è il leader del mondo che, di fronte al nuovo gravissimo problema del Medio Oriente dilaniato, tra sunniti e sciiti, tra Siria e Iran, tra Arabia Saudita e Yemen, tra le diverse fazioni o semi-Stati della Libia (senza parlare della proliferazione africana dello spietato conflitto), ha capito che aggiungere guerra alla guerra sarebbe stata la mossa peggiore e di gran lunga la più tragica.
In questo modo Obama nella percezione di una opinione pubblica mondiale, abituata a pensare che il più potente elimina subito il male facendo per poco tempo e molta gloria una guerra senza limiti, si è posto accanto alla storia, non alla testa, uno che non comanda e non guida, perciò un non protagonista. Questa mossa, coraggiosa e saggia, fa risaltare l’altro pregiudizio, silente ma profondo. Obama è nero. I due sentimenti (che del resto sono in buona parte inconsci e certo inconfessati) non si presentano come causa ed effetto. Ma ci sono e, affiancandosi, si rafforzano. E tutto questo crea uno strano clima nel quale due segmenti della storia americana (il tempo di Obama e il tempo del dopo Obama) vengono vissuti come tempi separati, perché in uno (quello di Obama) c’è un presidente nero, che non fa la guerra, due enormi anomalie, anche se la parte nero-bianco è in gran parte coperta da auto-negazione.
Nel dopo Obama potrà esserci la “minaccia” di Trump (che attira attenzione e persino simpatia con la sfacciata maleducazione di chi non ha ritegno perché può permetterselo) e una equilibrata Hillary Clinton che fa da saggio contrappeso all’interno di un mondo bianco e agiato che, grosso modo, sembra sapere che cosa si deve fare, in un periodo di rischi (soprattutto per noi bianchi) come quello in cui stiamo vivendo… Insomma, si conclude, sulla scena del mondo, il passaggio del miglior presidente degli Stati Uniti dopo Franklyn Delano Roosevelt, e non si notano nostalgie, non in proporzione alla straordinaria performance dell’Obamacare (accesso alle cure mediche per oltre trenta milioni di esclusi), alla disoccupazione scesa a un inimmaginabile 5 per cento, alla determinazione con cui Obama ha rifiutato di mandare i suoi soldati a morire (per poi nascondere le bare, come faceva Bush). Resta solo da decidere se il mancato elogio a questo presidente uscente (che dovrebbe vedere l’America e una buona porzione di mondo applaudire in piedi, e vede invece cauti e non frequenti cenni di ammirazione e un po’ di malinconia) si debba al fatto che, dopo tutto, Obama è nero. O al suo testardo rifiuto di fare di nuovo e da capo la guerra.