Dal palco dove parla da neopresidente di Confindustria, Vincenzo Boccia ringrazia il padre: “L’emozione più grande è vederti seduto in platea, davanti a me, e pensare da dove sei partito”. Sono passati 73 anni da quando Orazio Boccia, fondatore delle Arti Grafiche che portano il suo cognome, fuggiva sotto le bombe a Pandola, frazione di Mercato San Severino, Comune di Salerno. Nonno Vincenzo, papà di Orazio, scaricatore al porto, lo presero i tedeschi dopo l’8 settembre. Riuscì a fuggire dal campo di Avellino, ma si procurò un taglio alla mano, non gli dette peso, e morì di tetano mesi dopo.
E Orazio, a 11 anni, una mamma e quattro sorelle, dovette guadagnarsi il pane. Fa lo sciuscià, pulisce le vasche dove facevano il bagno, al diurno, i soldati americani, con un cazzotto ben assestato diventa il capo di una banda di scugnizzi. Nel settembre del 1945 la madre lo chiude in orfanotrofio: l’Umberto I, noto come “il Serraglio”. “Fui abbandonato a me stesso, nessuno venne mai a trovarmi. Ero scalzo, con la camicia ma senza canottiera, e con i pantaloncini corti.
Fu questo il mio abbigliamento, d’estate e d’inverno”, ricorda nel bel libro Storia di uno scugnizzo di Bruno Bisogni e Roberto Race, che la casa editrice Guida ha stampato tre anni fa. All’Umberto I Orazio impara fame, freddo e nozioni di tipografia. A diciotto anni è anche comunista, che, assieme al resto, non aiuta. Per trovare una prima occupazione stabile, dopo anni di lavoretti, torna all’Umberto I. L’orfanotrofio ha ricevuto la prima di importanti commesse: la stampa dei pacchetti di sigarette nazionali.
Nel ‘58 organizza pure il primo sciopero del “Serraglio”. Poi si mette in proprio. Con lui un collega licenziato e l’accordo per piccole commesse col Comune di Salerno (il sindaco Dc Alfonso Menna, già commissario dell’Umberto I, per tutta la vita stimò e sostenne questo ragazzo ostinato). Stampava manifesti del Pci (difficile era farseli pagare). Ha sempre creduto nell’impresa.