Che nostalgia sentire Matteo Renzi che parla di “luci e ombre”, a proposito dell’assai poco luminoso voto Pd di domenica, perché d’un colpo siamo ritornati giovani cronisti, ai tempi della vecchia Dc, quando in sala stampa veniva catapultato Clemente Mastella in canotta che ancora intronato dal solleone provava a impapocchiare voti e percentuali non sempre esaltanti per lo scudo crociato, aggrappato al salvagente delle luci e delle ombre, per l’appunto.
All’epoca, forse Renzi giocava ancora coi soldatini e difatti da quegli antichi conigli mannari non ha imparato nulla se non un certo talentaccio per il gioco delle tre carte. Quando annuncia, per esempio, che il Pd “quasi ovunque è oltre il quaranta per cento” (dove il trucco è nel “quasi”). O quando, beccato a mescolare l’insalatona di liste civiche, varie e di centrosinistra sostiene che il Pd “su quasi milletrecento sindaci ne porta a casa mille”, boom.
Per il resto, un premier nervoso, verboso, ingrugnato, avvelenato dal fiasco del Pd napoletano che vuole “commissariare”, e per nulla tranquillizzato dal “miracolo romano” (Serracchiani), e anzi piuttosto sgarbato con Giachetti “che faccia Giachetti se vuole vincere”. Ma soprattutto così imbufalito dai successi rosa a cinque stelle di Virginia Raggi e Chiara Appendino da non riuscire a trattenere battute e cazzeggi da rosicone (direbbe lui). Tanto che male non gli farebbe un goccio di quel Maalox che alle Europee di due anni fa fece ingurgitare a Beppe Grillo.
Il premier occulta e divaga perché ha capito benissimo che il vento è cambiato. Che l’effetto mediatico, prima ancora che elettorale, di una giovane donna M5S a un passo dal Campidoglio già rimbalza da Parigi a New York, dal Guardian a LaVanguardia.
Quella Virginia superstar che lo mette in ombra gli scoccia da morire. Maledizione, e adesso cosa penseranno Angela e Barack?
Senza contare che il giochino stucchevole di separare il voto amministrativo dal giudizio sulla maggioranza di governo fa acqua da tutte le parti.
A Torino, dove Piero Fassino motiva il suo non brillantissimo risultato citando i morsi della “crisi sociale”, soprattutto nelle periferie (ex) operaie. A Napoli o a Cosenza dove il Partito della Nazione affonda ingloriosamente insieme al faccione di Denis Verdini e alla sua corte di impresentabili.
Con il vento che cambia, il referendum di ottobre sulle riforme costituzionali che a gennaio il Si vinceva in carrozza, diventa un incubo di mezza estate con il No che, secondo i sondaggi, recupera posizioni e slancio. Con l’effetto di polarizzare al massimo lo scontro politico: i ballottaggi del 19 giugno, infatti, sembrano fatti apposta per strutturare la coalizione di tutti contro uno, da Salvini a Berlusconi, da Grillo a Fassina.
Le prove generali per l’Armageddon d’autunno. Ma poiché, comprensibilmente, tra i renziani di un mesto viaggio di ritorno da Palazzo Chigi a Rignano sull’Arno non c’è granché voglia, prepariamoci ai fuochi d’artificio. Due settimane di propaganda televisiva a tappeto (e in Rai non mancheranno i tappetini) mentre già si prepara il missile a tre stadi per proiettare Giuseppe Sala, ma soprattutto Roberto Giachetti, nel più alto dei cieli.
Primo stadio: un sindaco del Pd governa molto più tranquillo se anche il premier è del Pd. Secondo stadio: un sindaco 5Stelle non può certo aspettarsi trattamenti di favore da un governo a guida Pd. Terzo stadio: chiedere a Ignazio Marino cosa succede se quel governo a guida Pd decide di tagliare i rifornimenti a una Capitale dai conti disastrati.
Ma c’è un ma. Nella affannosa rincorsa per salvare il salvabile, la squadra di Matteo Renzi appare meno compatta rispetto al passato. Scambi di vedute non sempre coincidenti sulla strategia plebiscitaria (o con me o contro di me) che ha esasperato la sinistra interna, di cui ora si ha bisogno. Qualcosa in corsa può cambiare ma l’uomo solo al comando di ieri, oggi sembra essere un uomo al comando da solo. Intanto, per la cronaca, il redivivo Clemente Mastella è più che mai in corsa per diventare sindaco di Benevento. È girato il vento.