Con il suo rifiuto di incontrare un magistrato italiano, la docente dell’Università di Cambridge che coordinava le ricerche di Giulio Regeni ha deluso molti, inclusi i genitori dello studioso assassinato. Ma, piuttosto che sdegnarsi, sarebbe utile riflettere sulla sfiducia che quel diniego esprime. Si può dare torto alla professoressa Maha Abdelrahman se diffida della “collaborazione” tra la Procura di Roma e la Procura generale del Cairo? Se non vuole offrire pretesti a quella parte dell’informazione italiana che, fin dall’inizio, mentre difendeva Al-Sisi, accusava ambienti accademici britannici di aver “mandato allo sbaraglio” Regeni, o peggio, di opachi legami con servizi segreti anglosassoni? E soprattutto, avrebbe torto, la docente di Cambridge, se giudicasse vacui e insinceri i proclami con i quali Renzi e il suo governo hanno ripetuto, settimana dopo settimana, che mai avremmo rinunciato alla verità? Vediamo.
Dopo molto viaggiare tra Roma e Il Cairo, il fascicolo intitolato “Giulio Regeni” è pieno di carte che dicono nulla. Quel che è peggio, dovrebbe intitolarsi “Regeni+5”, i cinque sventurati che la polizia egiziana ha fucilato e trasformato negli assassini dell’italiano, salvo poi correggersi. Questa esuberanza investigativa non ha impressionato la Procura di Roma, chiamata a svolgere un compito improprio: protrarre la finzione che vuole un’Italia fattiva e determinata, un paese che batte i pugni sul tavolo e, alla fine, otterrà. Malgrado ormai l’opinione pubblica sia sedata, la commedia della “collaborazione” continua. Eppure sappiamo già quel che il procuratore del Cairo mai potrà dirci. Giulio Regeni era noto ai servizi segreti egiziani per i suoi contatti con i sindacalisti; arrestato nel giorno in cui il regime è più nervoso, l’anniversario della “primavera egiziana”, è stato torturato a morte.
L’ha ucciso il “sistema Al-Sisi”, il resto sono dettagli. Beninteso, i dettagli (chi comandò, chi torturò) non sono irrilevanti, e anzi i nostri servizi segreti potrebbero far sapere cosa hanno scoperto, se hanno scoperto. Ma la sostanza è che, in quanto a violazioni dei diritti umani, il regime egiziano non è diverso dal Cile di Pinochet. Con questa elementare verità avremmo dovuto fare i conti fino in fondo: e sarebbe stato il tributo migliore alla memoria di Giulio Regeni. Avremmo dovuto chiederci perché il regime è così impaurito dal sindacalismo libero; perché massacra studenti e laici mentre dice di combattere il terrorismo; e se il nucleo della crisi egiziana non abbia a che fare con il dominio di un’oligarchia militare rapace e violentissima che non vuole mollare quel 40-65% dell’economia nazionale che, direttamente o indirettamente, controlla.
Domande che magari ci avrebbero evitato gli entusiasmi per il migration compact renziano, non privo di qualche spunto felice ma fermo alla vecchia logica delle sovvenzioni a regimi nefandi che sono concausa dell’esodo di moltitudini. Inoltre, giornali e parlamento avrebbero potuto interrogarsi su una politica estera che condusse Renzi a pronunciare lodi sperticate di Al-Sisi: a quale visione del mondo e delle relazioni internazionali rimanda questo sprofondare così in basso? Fossero questioni scomode o troppo complicate, la politica se ne è tenuta lontano. Per diverse settimane, le direzioni dei grandi media hanno lasciato intendere che Regeni era stato assassinato per nuocere a Renzi e al nostro amico Al-Sisi, baluardo contro l’islam.
Poi un giorno Al-Sisi ha smentito gli estimatori con un discorso che era un’intimazione a dimenticare Regeni e, dodici ore dopo, era un tagliagole perfino per l’adorante Unità; quindi il governo ha ritirato l’ambasciatore, misura di dubbia utilità, minacciato rappresaglie economiche mai attuate e ripetuto il “mai rinunceremo”. Da allora più nulla. Né fatti né parole. In tutto questo non c’è una coerenza, una strategia, una logica stringente. Solo un barcamenarsi mesto, badando ai vantaggi del momento, ai titoli, agli umori della piazza mediatica, alle richieste di questo e di quel potentato economico. Se poi occorre contraddirsi, nessun problema: i media italiani da tempo hanno abolito il principio di non contraddizione, fondamento del Logos occidentale. Da noi A può essere anche B, dipende dalle convenienze. Sicché non c’è da meravigliarsi se una rappresentante della cultura occidentale, come la professoressa Abdelrahman, non si fidi di questo strano Oriente a bagno nel Mediterraneo.