Quando il dito indica Gomorra, la serie, l’imbecille guarda Napoli. La seconda stagione si è chiusa martedì con don Pietro Savastano freddato da Ciro l’Immortale sulla soglia della tomba di famiglia, là dove lo aveva portato il suo inconscio desiderio di morte. Il Trono di spade insegna, la lotta per il potere non può fare prigionieri. La distanza tra la magnifica serie di Sky e le produzioni Rai e Mediaset è ancora aumentata; eppure, invece di essere applaudita come un modello di caratura internazionale, è stata accompagnata da continue polemiche di ringhiera: chi la considera “lontana dalla realtà di Napoli”, intenta a raccontare solo il crimine; chi la vede portatrice di modelli sbagliati, negativi.
Prima obiezione: il male si combatte mostrandolo e lo si aiuta tacendolo, a meno che non si voglia considerare l’omertà il massimo dell’eroismo. Seconda obiezione: se Gomorra è fuori dalla realtà, non si vede perché dovrebbe offrire modelli negativi. Piuttosto: siamo sicuri che il romanzo nero messo in scena da Sollima sia diseducativo? Campi lunghi scanditi dai lunghi silenzi, dialoghi carveriani, il lusso cadaverico degli arredi, la fotografia terra e acciaio… il neorealismo ha virato inesorabilmente sul metafisico e il tema centrale è diventato la solitudine a cui tutti i camorristi sono condannati, dal boss all’ultimo dei manovali. Gomorra è la più educativa delle serie perché mostra il vero volto del male, il luogo dell’anima dove la prima condanna è vivere.