Alla fine il pubblico ministero Antonino Di Matteo sbotta: “Scusi presidente”, dice rivolto al presidente della Corte d’Assise Alfredo Montalto, “chiedo di mostrare al testimone questa intervista”. Quella che il pm del processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia tira fuori dalla sua cartellina è l’intervista di Giuseppe D’Avanzo all’allora ministro uscente dell’interno Vincenzo Scotti, pubblicata a pagina due su la Repubblica il 21 giugno del 1992, con richiamo in prima pagina. È il punto chiave dell’esame del testimone smemorato: “Sto facendo la figura dello smemorato di Collegno” dice con autoironia lui stesso.
L’unico attimo in cui la voce dell’ex premier sale di tono, il viso si avvampa e per un attimo il tecnico craxiano diventa un uomo con carne viva e sangue vero è intorno alle 11 di mattina. Amato è da un paio di ore seduto davanti ai giudici della Corte d’assise di Palermo in trasferta a Roma. In prima fila c’è l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, imputato con altre nove persone tra cui Marcello Dell’Utri e i boss Totò Riina e Leoluca Bagarella, presenti in videoconferenza. Almeno fino a quando Bagarella, stremato dalle risposte soporifere di Amato, decide di spegnere il collegamento e tornare nella sua cella.
Il punto attorno al quale il pm gira come il gatto con il topo da due ore è sempre il solito: la scelta di non mantenere nel governo di Amato, che seguì quello guidato da Giulio Andreotti, il democristiano Enzo Scotti all’Interno. Sono passati 24 anni. Giuliano Amato si avvale spesso della facoltà di non ricordare. Guarda spesso l’orologio: “In questo momento c’è una camera di consiglio alla Consulta”, dice a un certo punto invocando una celere chiusura della pratica. La tesi non dichiarata dell’accusa, presente anche con i pm Francesco Del Bene e Francesco Tartaglia, è che Scotti sia stato fatto fuori dal governo Amato per dare un segnale di ammorbidimento alla mafia dopo la strage di Capaci e le missive con le minacce di morte ai politici del Psi e della Dc. La scelta di Mancino è il primo segnale della resa. Lo Stato poi continua a calare le braghe con la nomina di Giovanni Conso al posto del dimissionario Claudio Martelli, la revoca del regime del 41 bis da parte di Conso nelle carceri di Napoli. Infine la sua nomina del morbido Adalberto Capriotti al Dipartimento amministrazione Penitenziaria e la richiesta di Capriotti, dopo le bombe mafiose del 1993, di non prorogare il 41 bis per centinaia di detenuti di mafia.
Il principio di tutto sarebbe la mancata conferma di Scotti. Ecco perché il pm Di Matteo insiste. “Lei aveva capito che Scotti voleva restare al ministero dell’Interno e considerava la sua mancata conferma un segnale di mutamento della politica contro la mafia?”. Amato finalmente si inalbera: “Scotti era una persona che conoscevo bene. Di cui io mi consideravo e mi considero amico. Se avesse pensato questo mi avrebbe chiamato e mi avrebbe detto: ‘Giuliano io voglio restare all’Interno perché è importante per la lotta contro la mafia e qui si rischia che mi mettono fuori’.
Questo – scandisce Amato – non è accaduto. È l’unica cosa che ricordo”, aggiunge con autoironia. A questo punto Di Matteo tira fuori l’intervista, la porge ad Amato e legge a voce alta le parole di Scotti a D’Avanzo: “La mafia colpirà ancora (…) C’è chi fa orecchie da mercante (…) bene, a questi signori ho già detto che io non andrò più a Palermo a raccogliere insulti e monetine per loro e al loro posto. Nessuno può pensare, dinanzi alla guerra che bisogna scatenare contro la mafia, di lavarsi pilatescamente le mani. Sia ben chiaro, soltanto con un esecutivo forte, legittimato nel tempo e nei consensi può proseguire il lavoro già iniziato da me e da Martelli.
È una politica che va confermata e una legittimazione di quella politica passa attraverso la riconferma di entrambi… nel mio partito come in quello di Martelli c’è chi sarebbe molto contento che entrambi ce ne tornassimo a casa”. Di Matteo fa una pausa poi infilza Amato: al di là di quello che ha detto lei oggi, Scotti chiedeva la sua riconferma. Lei questa uscita pubblica la ricorda? E Amato: “Sto leggendo ora questa intervista”. Poi aggiunge: “Quando è entrato nel mio governo non ha mai manifestato alcun rammarico”. E poi “Mancino era una persona solida”. Di Matteo a quel punto gli contesta quanto affermato da Scotti. “L’ex ministro ha dichiarato che le presentò una lettera di dimissioni appena nominato. È vero o non è vero?”. La risposta di Amato? “Non ricordo”.