Sull’efficacia del provvedimento è doveroso discutere. Sull’opportunità no. Il premier Matteo Renzi lo sa benissimo. E per questo, quando ha annunciato il suo giro di vite contro i furbetti del cartellino, per tre volte e con faccia severa, ha ripetuto in favor di telecamere: “È un licenziamento. Cattivo, ma giusto”. Del resto tutti gli italiani perbene, a partire dalle centinaia di migliaia di cittadini che lavorano nella pubblica amministrazione, vogliono che il brutto e decennale andazzo finisca: basta con gente che timbra ed esce dall’ufficio. Costringendo oltretutto i colleghi a faticare il doppio. Quello che però molti elettori non capiscono è perché pure con la nuova legge si continui con i due pesi e due misure.
Sì, perché in Italia i dipendenti pubblici non sono tutti uguali. Ci sono quelli selezionati per concorso che se fanno i fannulloni da domani, secondo l’ottimista Renzi, verranno puniti o licenziati quasi in tronco. E ci sono quelli nominati in parlamento dai partiti che invece continueranno a incassare lo stipendio. Certo, lo sappiamo come vanno queste cose. Chi ricorda i troppi deputati e senatori che, stando ai dati di Openpolis, continuano a non presentarsi a Montecitorio o a Palazzo Madama, viene definito populista. Ma noi che crediamo nel valore dell’esempio l’ingiustizia la vediamo lo stesso.
È davvero possibile permettere ad Antonio Angelucci, big boss delle cliniche italiane e grande amico dell’altro assenteista Denis Verdini, di non partecipare al 99,52 per cento delle votazioni? E se siamo tutti d’accordo che, in linea di principio, non si può licenziare una persona scelta (in teoria) come rappresentante del popolo, non sarebbe meglio decurtargli l’indennità – pari a circa a 10mila euro lordi mese – in proporzione alle sue assenze? Anche perché a scorrere l’elenco di quelli che in parlamento non ci mettono praticamente piede saltano fuori molti nomi di ultra-benestanti.
C’è il forzista Rocco Crimi, non presente al 91,65 per cento. C’è l’avvocato di Silvio Berlusconi, Piero Longo, che dall’aula, per lui evidentemente sorda e grigia, ci sta lontano nel 75 per cento dei casi, risultando però molto più attivo rispetto al suo collega senatore Niccolò Ghedini, allergico al voto 99 volte su cento. Poco romano è pure l’industriale Alberto Bombassei che sicuramente nella sua rinomata fabbrica di freni, la Brembo, non permetterebbe a nessun operaio o dirigente di starsene a casa nel 65 per cento delle giornate lavorative. Potremmo continuare. Ma ci fermiamo qui. Per ragioni di spazio e di carità di patria. Gli elenchi intanto sono in Internet. Chi vuole li consulti.
Sarebbe però un bel segnale se in parlamento qualcuno si decidesse a innovare radicalmente le norme. Limitarsi a non pagare la diaria (circa 200 euro) a chi non partecipa ad almeno il 30 per cento delle votazioni in una singola giornata, non basta. Per equità, e per dimostrare di serietà davanti a tutti gli italiani, un intervento si impone. Condannare l’antipolitica, sorprendersi se ormai molti parlamentari quando fanno campagna elettorale nei mercati ricevono solo scariche di insulti, non serve. Va riscoperto, lo dicevamo sopra, il valore dell’esempio. Ricordando che, se alla Camera e al Senato una maggioranza per cambiare i regolamenti non si trova, ogni singolo partito può far tutto da solo. Può imporre ai suoi, pena l’espulsione, di versare in una cassa comune a fini di beneficienza quanto percepito quando si era ingiustificatamente assenti.