Non è una coincidenza che il successo di Ta-Nehisi Coates arrivi nel crepuscolo dell’esperienza di Barack Obama alla Casa Bianca. Diventa un caso letterario mondiale il libro che denuncia la condizione dei neri, anzi, la loro (fondata) percezione di essere costantemente in pericolo di vita nell’America di oggi proprio mentre inizia a svanire l’illusione che avere un presidente dalla pelle scura basti per riscattare tutti quelli che non sono bianchi.
“Sapevo che il padre di mio padre era morto, e che mio zio Oscar era morto e che mio zio David era morto e nessuna di queste scomparse era stata naturale”, Ta-Nehisi Coates ha imparato fin da bambino che il destino naturale di un nero, quello che verso cui lo spinge la società, è il carcere o una morte violenta. É una paura per l’incolumità fisica, primordiale, istintiva, che lo accompagna anche oggi che, a 40 anni, è un celebrato intellettuale: prima i suoi lunghi saggi sull’Atlantic, poi il best seller “Fra me e il mondo”, una lettera al figlio adolescente che ora viene pubblicata in Italia da Codice edizioni, infine la Marvel Comics che gli chiede di sceneggiare la nuova serie di Pantera Nera, storico supereroe nero un po’ in disarmo. Proprio per questa avventura fumettistica Coates si è guadagnato un po’ di spazio anche sui giornali italiani. Ma l’efficace operazione di marketing della Marvel ha un po’ annacquato la forza della denuncia di questo giornalista di Baltimora che è riuscito a riportare nel dibattito americano la questione della razza con una forza tale da aprire una discussione perfino sui “risarcimenti” che l’America dovrebbe ai suoi cittadini neri.
Chi non ha mai visto una città come Chicago, dove è cresciuto Obama, fatica a capire cosa sia il razzismo che denuncia Coates: non è un astio personale, del singolo americano bianco contro chi ha la pelle di un altro colore, ma è un sistema di regole scritte e tacite in base alle quali chi nasce in un quartiere nero sarà senza padre e zii (sono in carcere o uccisi), potrà andare soltanto in scuole dove ci sono i metal detector all’ingresso e la droga e la polizia all’interno, tornerà a casa tra muri pieni di piombo che causano danni alle capacità di apprendimento, in ogni momento può essere arrestato, perdendo ogni possibilità di trovare poi un lavoro diverso dal vendere crack, o ucciso da una gang o, più di frequente e senza ragione, da un poliziotto. É un razzismo istituzionale, non individuale che Coates riassume così: “In America la ferita non è nata con la pelle più scura, labbra più piene, naso più largo, ma da tutto cioè che gli è stato costruito intorno”.
Anche gli stessi americani (bianchi) non ne sono consapevoli, i “sognatori” – come li chiama Coates alludendo all’American dream – hanno bisogno di raccontarsi la storia di un Paese dove tutti hanno la possibilità di diventare miliardari o arrivare alla Casa Bianca, in nome di quel diritto alla ricerca della felicità garantito dalla Costituzione. La storia di Barack Obama non ne è forse la prova?
Una domenica Ta-Nehisi Coates è ospite in un talk show e la conduttrice, dopo avergli fatto spiegare perché uno scrittore famoso percepisca ancora la propria incolumità come incerta, gli mostra la foto di un bambino nero in lacrime che abbraccia un poliziotto bianco. Chiede un commento sulla speranza, una di quelle frasi da postare su Facebook. E Coates capisce che il suo messaggio non passerà mai tra i “sognatori”: “Quando la giornalista ha chiesto del mio corpo era come se mi stesse chiedendo di risvegliarla dal più meraviglioso dei sogni”. Il sogno di una villetta col prato tagliaot ogni settimana, con i barbecue e tanti bambini biondi che giocano sicuri di poter entrare in una costosa università e di trovare un lavoro adeguato al loro status, di genitori orgogliosi della propria famiglia e fieri di essere americani. Per Coates gli Stati Uniti non sono il Paese dei barbecue e de fuochi d’artificio il 4 luglio, ma uno Stato che proscioglie assassini come Darren Wilson, l’agente che nel 2014 ha ucciso senza alcun motivo concreto il 18enne Michael Brown a Ferguson, alla periferia di St Louis.
Ci sono due Americhe che convinvono, una terribilmente consapevole dela frattura, l’altra che invece vuole solo ignorarla. Nella sua lettera al figlio, Ta-Nehisi Coates arriva a confessare la sua indifferenza di fronte alle torri he crollano l’11 settembre del 2001: “Ero sfasato rispetto alla città. Non potevo fare a meno di pensare a come la parte Sud di Manhattan fosse sempre stata il nostro Ground Zero. Era là che mettevano all’asta i nostri corpi, proprio laggiù in quel distretto devastato, giustamente chiamato finanziario”. L’America che i terroristi volevano colpire è uno Stato oppressore che Coates non è disposto a difendere e quando guarda i poliziotti e i vigili del fuoco che lottano tra le macerie per estrarre i sopravvissuti non vede l’eroismo diffuso da celebrare con l’inno nazionale, ma “catastrofi naturali, erano il fuoco, la cometa, la tempesta che avrebbe potuto mandare in frantumi il mio corpo senza alcuna spiegazione”. A quei poliziotti è garantito di fatto il diritto di uccidere senza conseguenze “l’uomo nero”. E non basta un presidente con un padre keniota per chiudere quattro secoli di schiavismo e discriminazione.