Da Belluno a Ponte nelle Alpi, qualche chilometro di strade provinciali, costeggiando il Piave, oltre il Cadore poi lo spettacolo delle Dolomiti. Le stradine sterrate che seguono il profilo delle valli. Paese dopo paese poi il nulla. Solo verde e roccia nel silenzio. Nessun occhio curioso, nessun rischio. È qui che incredibilmente arriva il jihad.
È qui che una cellula fedele al Califfato (e residente nel Bellunese) si è esercitata a sparare e a combattere nel nome di Allah. Armi in pugno e un pensiero: partire per la Siria e arruolarsi tra le file di Daesh. Il racconto mai fotografato prima emerge dall’inchiesta del Ros di Padova e della Procura di Venezia che il 16 marzo scorso ha ottenuto dal tribunale tre ordini d’arresto.
L’indagine inizia nel gennaio 2014 quando si apprende che il bosniaco Ismar Mesinovic (nato a Boboj nel 1977) e il macedone Minifer Karamaleski (nato a Prilep nel 1988) partono per le zone di guerra. Il primo porterà con sé il figlio e morirà ad Aleppo. Il secondo, invece, nello Stato Islamico vive con la famiglia e ricopre il ruolo di cassiere (“fa la guardia armata al bottino di guerra”).
L’indagine è a ritroso. Già nel 2013 i due erano in contatto con il marocchino Jaffar Anass che su Facebook celebrava la morte del genovese Giuliano Del Nevo, primo combattente italiano partito e morto per Allah. Il lavoro dell’intelligence porta all’imam salafita Hussein Bilal Bosnic, oggi in carcere a Sarajevo e considerato uno dei più grandi reclutatori europei di Is.
Ecco cosa dice di lui un albanese vicino a due foreign fighters intercettato dal Ros: “Quello ha mandato 200 persone in Siria (…) ha mandato mezza Bosnia (..) Chi andava a casa sua due volte poi partiva”. Nel luglio del 2013, i due incontrano per la prima volta Bosnic in un centro islamico di Castelfranco Veneto (lo rivedranno poi a Pordenone). L’intermediario è Ajhan Veapi che con Bosnic “ha un rapporto privilegiato”. La radicalizzazione procede velocemente. Poi nell’autunno sempre del 2013 emerge la figura dello sloveno Rok Zavbi classe 1990, il quale, pur giovanissimo, è già un veterano dei campi di guerra. Rok ha già combattuto in Siria e da lì è rientrato in Europa. Arrestato nel marzo scorso, due giorni fa la Procura di Venezia ha ottenuto la sua estradizione in Italia.
Nel 2013 Zavbi, su indicazione di Bosnic, arriva in Veneto e va a casa di Mesinovic a Longarone, dove il bosniaco si è trasferito dopo la separazione con la moglie. Gli investigatori si trovano così davanti a un personaggio di rilievo. Sarà lui ad addestrare i due al jihad nelle cave delle Dolomiti. Quando Rok arriva dalla Slovenia porta con sé delle armi. In particolare, viene messo a verbale “una pistola compatta, cromata, probabilmente di marca Beretta”. È con questa, sostengono gli investigatori, che Karamaleski e Mesinovic si esercitano. A riprova ci sono diversi verbali di sommarie informazioni dei parenti che confermano le esercitazioni sulle Dolomiti. Di più: un’altra persona molto vicina alla cellula islamica spiega agli investigatori: “La sua presenza a casa di Ismar era quella di dare entusiasmo al gruppo per partire per la Siria. Era ritornato da circa un paio di mesi.
Durante la sua permanenza ci spiegava che combatteva ad Aleppo e veniva anche sfruttato come infermiere. Ci raccontava che i mujaheddin giunti venivano radunati e alloggiati in dormitori. Ci spiegava che tra i nemici incontrati i soldati dell’esercito di Assad erano molto deboli militarmente, mentre quelli di Hezbollah erano più preparati. Ci spiegò alcune tattiche di combattimento e delle strategie attuate sul campo di battaglia: in una occasione dovettero affrontare un panzer che stava giungendo, ci illustrò la tattica attuata per combattere. Sul posto spiegava che ci sarebbero state diverse armi di provenienza russa, kalashnikov, altre mitragliatrici di tutte le dimensioni”.
Le lezioni sulle Dolomiti alternano pratica e teoria. Nessuno se ne accorge. Il giovane mujaheddin spiega che “bisogna fare attenzione quando si combatte con gruppi arabi perché non sono affidabili”. Rok Zavbi tornerà a Belluno anche nel gennaio del 2014 per prelevare dal conto di Karamaleski 6.400 euro. Terminato l’addestramento, Mesinovic confida all’amico albanese: “Per me è arrivato il momento”. Partirà e morirà. Mentre Karamaleski, intercettato su Skype, con la sorella Sibel spiega come si vive oggi a Daesh: “Prendo 200 dollari al mese, non pago l’affitto e la corrente elettrica, solamente il cibo”.