Il 3 aprile 2014, intervistato da Lilli Gruber, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha detto una cosa vera: “L’Eni è oggi un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi, i servizi segreti”. Al di là delle polemiche di due anni fa su quello che in Italia si era sempre fatto, ma non si era mai detto – le rivelazioni di Renzi sul ruolo dell’Eni in favore della sicurezza nazionale – la frase del premier chiarisce bene perché ogni cittadino debba preoccuparsi per le sorti del nostro colosso petrolifero.
Il buon andamento e la corretta gestione dell’Ente nazionale idrocarburi è interesse di tutti. Così come tutti dovrebbero auspicare che la promessa progressiva riconversione dell’Eni alle energie rinnovabili avvenga in maniera celere ed efficace.
Per questo stupisce l’assoluto disinteresse fin qui mostrato dai giornali italiani per quello che sta accadendo a Siracusa. I fatti per chi ci legge sono noti. Da mesi la procura siciliana indaga su un presunto complotto ordito per far saltare la poltrona del numero uno Eni, Claudio Descalzi, e per delegittimare Renzi. L’inchiesta è in fase avanzata. In questi giorni vengono sentiti come testimoni gli uomini più vicini al premier. Il primo è stato Andrea Bacci, l’imprenditore che Renzi voleva alla guida di Telekom Sparkle. A breve toccherà al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Luca Lotti, e poi a Marco Carrai, l’amico di una vita che il premier sognava a capo della nostra cyber security. Le modalità con cui è nata l’indagine sono però anomale. Ci sono dossier, ricchi di foto e intercettazioni, recapitati anonimamente a un’altra piccola Procura, quella di Trani, ci sono testimoni che si presentano spontaneamente raccontando di essere stati minacciati. Per questo anche i pm siciliani non escludono di trovarsi davanti a un depistaggio. A una manovra utile, a prima vista, per far passare Descalzi come vittima in settimane che Eni sa essere cruciali. A Milano sta per essere chiusa l’inchiesta su una presunta maxi-tangente versata dalla società petrolifera a politici di primo piano del vecchio governo della Nigeria e in parte forse intascata da manager italiani. Un’indagine in cui De Scalzi è indagato assieme al suo predecessore, Paolo Scaroni, e molti altri personaggi dal profilo ambiguo, come l’uomo che sussurra ai potenti, Luigi Bisignani.
A Lagos poi il nuovo presidente ha messo al lavoro i suoi investigatori e in molti in Italia temono si arrivi a provvedimenti clamorosi. Cosa c’è di meglio di un presunto complotto anti-Renzi e anti-Eni per screditare i testimoni che hanno già parlato a Milano o per depotenziare ciò che potrebbe accadere in Nigeria? Cosa c’è meglio di un’inchiesta giudiziaria in cui giocoforza i magistrati sono costretti ad ascoltare gli uomini del Giglio Magico per lanciare un segnale a Palazzo Chigi? Ma non basta. In questo gioco di specchi in cui nulla è come sembra, l’eventuale depistaggio potrebbe avere invece un obbiettivo solo apparentemente minore: l’udienza preliminare per la maxi mazzetta versata, sempre secondo gli inquirenti milanesi, dalla vecchia gestione Eni (Scaroni e suoi) a un ministro dell’energia algerino tra il 2007 e il 2010.
Qui al Fatto, sia chiaro, per ora non sappiamo come stanno realmente le cose. Sappiamo però che lo spionaggio è il secondo più vecchio mestiere del mondo, ma che è molto meno onesto del primo. Per questo procediamo con i piedi di piombo, riscontrando a una a una tutte le informazioni che riusciamo a raccogliere. Avanziamo ipotesi e cerchiamo verifiche. Proviamo insomma a fare al meglio il nostro lavoro. Nella convinzione che questo sia il dovere di ogni giornalista. Specie quando si parla di un bene importante come l’Eni. Ma forse si tratta solo una visione antiquata e romantica della nostra professione. Perché a farlo finora siamo i soli.