Il Badante Emerito della Repubblica, Giorgio I e II di Borbone, che da sempre considera noi italiani un popolo immaturo (e pure gli inglesi) perché non votiamo mai secondo le sue indicazioni, infatti del nostro voto se n’è sempre infischiato, ha voluto impartirci ieri una nuova lezioncina su come comportarci al referendum costituzionale. “Sì, (nella riforma Boschi-Renzi-Verdini, ndr) ci sono delle imperfezioni, ma io ritengo che sia legittimo e auspicabile, e io me lo auguro fortemente, che la stragrande maggioranza dei cittadini non faccia ancora una volta finire nel nulla gli sforzi messi in atto in due anni in Parlamento. Sulle riforme mi ci sono rotto la testa per quasi 9 anni”. Prendiamo buona nota, ansiosi di sapere chi mai gli abbia prescritto di spaccarsi la testa per mandare al macero la Carta su cui ha giurato addirittura due volte, e speranzosi che anche stavolta dalle urne esca il risultato opposto ai suoi emeriti auspici.
Facciamo però sommessamente notare all’Uomo Sandwich del Sì ciò che ha detto l’altroieri il suo ultimo protégé, Matteo Renzi, alla direzione del Pd: “C’è qualcuno tra voi che pensa sinceramente che, dopo che la legislatura è nata e ha fatto ciò che ha fatto, in caso di No al referendum, il presidente del Consiglio, e io penso anche il Parlamento, non ne possa prendere atto?”. Tradotto in italiano: se vince il No, oltre a tutte le catastrofi già preconizzate da lui, Boschi, Confindustria e altri vassalli, valvassori e valvassini, avremo pure lo scioglimento anticipato delle Camere. Cioè – quando si dice la tragedia – i parlamentari al primo mandato perderanno il diritto alla pensione. In un paese normale, e persino in Italia fino a due anni fa, appena un premier si azzardava a minacciare la fine della legislatura per salvare la poltrona, interveniva il capo dello Stato a rammentargli che il potere di sciogliere le Camere spetta a lui e che, morto un governo, se ne fa sempre un altro finché c’è una maggioranza pronta a sostenerlo. Ora però un presidente non l’abbiamo più, o peggio: ne abbiamo uno che non sa di esserlo. Dunque nessuno ha provveduto a erudire il pupo sulle regole elementari della democrazia parlamentare. C’era da attendersi che lo facesse l’emerito predecessore che, quando sedeva sul trono, non mancò mai di ricordare ai premier (e non solo) le proprie prerogative. L’8 settembre 2010 Napolitano rimbeccò addirittura il direttore del Tg1 Augusto Minzolini, reo di aver definito “ribaltone” un’eventuale nuova maggioranza al posto di quella berlusconiana, senza passare per le urne.
“Nella Costituzione – monitò – c’è anche l’articolo che regola le prerogative del capo dello Stato. La Costituzione andrebbe letta nella sua interezza”, compreso il dovere di verificare l’esistenza di una maggioranza prima di sciogliere le Camere. Nell’aprile del 2013 Napolitano si fece rieleggere, ma solo a patto che il Parlamento votasse un altro governo di larghe intese (appena bocciate dagli elettori) e una riforma della Costituzione, sennò se ne sarebbe andato all’istante. Così, sotto ricatto, nacque il governo Letta. Il 26 giugno re Giorgio ricevette il premier B. che, appena condannato in primo grado al processo Ruby, minacciava la crisi di governo per tornare alle urne: “Il potere di scioglimento delle Camere è mio e, se cade il governo, ho il dovere di verificare se c’è una nuova maggioranza in Parlamento”, lo zittì Sua Maestà. Un mese dopo Bertinotti scrisse al Corriere una durissima lettera contro le manovre politiche del presidente che faceva e disfaceva i governi all’insaputa degli elettori. Lui rispose piccato: “So bene che in caso di crisi, resta il ricorso al voto popolare e che da qualche parte si confida nella possibilità di dare vita così a un’alternativa di governo. Ma di azzardi la democrazia italiana ne ha vissuti già troppi… Da presidente considero il frequente e facile ricorso a elezioni politiche anticipate una delle più dannose patologie italiane”. Il 1° agosto B. fu condannato in Cassazione per la frode Mediaset e tornò a minacciare la fine della legislatura. Napolitano incontrò Enrico Letta per incoraggiarlo ad “andare avanti con forte determinazione” e promettere che in caso di crisi di governo non avrebbe sciolto le Camere (“Piuttosto mi dimetto”).
Alla fine B. preferì aspettare, anche perché il monarca gli aveva fatto balenare la grazia, e disse per calmare i suoi: “Il presidente ci ha fatto sapere che, in caso di crisi, lui si dimette un minuto dopo, piuttosto che sciogliere le Camere e concedere le elezioni anticipate, e noi rischiamo di ritrovarci Prodi al suo posto”. Intanto anche il Pd, dissanguato dalla convivenza forzata (dal Colle) col pregiudicato, iniziò a pensare alle urne. Ma Napolitano il 9 agosto convocò a Castelporziano il segretario Epifani, la Finocchiaro e i capigruppo Speranza e Zanda per comunicare loro che mai e poi mai avrebbe sciolto le Camere, nemmeno se fosse caduto il governo (“Piuttosto mi dimetto”). Poi diffidò B. dall’“agitare, in contrapposizione a quella sentenza (della Cassazione, ndr), ipotesi arbitrarie e impraticabili di scioglimento delle Camere”. Il 26 settembre, avvicinandosi il voto sulla decadenza di B. dal Senato, il Pdl annunciò le dimissioni in massa dei propri parlamentari. E re Giorgio, furibondo, monitò: “Inquietante sarebbe il proposito di compiere tale gesto al fine di esercitare un’estrema pressione sul capo dello Stato per il più ravvicinato scioglimento delle Camere”. Nessuno più di lui aveva ben chiaro che nessun premier può sostituirsi al capo dello Stato annunciando lo scioglimento delle Camere. Nessuno tranne Renzi, si capisce. Mica è Minzolini, lui.