Il G8 di Genova non fu una vera emergenza di ordine pubblico. La retorica dell’emergenza, però, servì e serve ancora oggi a giustificare gli abusi delle forze di polizia. “Abbiamo buttato al macero le norme e le garanzie per una situazione che non fu apocalittica come si temeva. Che cosa succederà quando la posta in gioco sarà più alta?”. Enrico Zucca, uno dei pm che ha condotto in porto la faticosa inchiesta sulla scuola Diaz, rilegge così, quindici anni dopo, quei giorni del luglio 2001 passati alla storia come “la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la seconda guerra mondiale” (secondo una funzionaria di Amnesty International), una “macelleria messicana” (testimonianza diretta del poliziotto Michelangelo Fournier), una “notte cilena” (copyright Massimo D’Alema).
Certo, ci furono scontri violenti e Carlo Giuliani restò ucciso in un momento in cui la gestione della piazza era completamente sfuggita a chi avrebbe dovuto coordinarla (“Nooo, i carabinieri hanno caricato il corteo delle Tute bianche, porco giuda!”, si sgola un funzionario della centrale operativa, ed è l’inizio degli scontri che culminano nello sparo di piazza Alimonda).
Ma “la città non fu devastata”, rimarca Zucca, come poi venne ripetuto nei talk show e sui giornali, per far da contraltare ai fatti che inchiodavano funzionari e agenti alle loro responsabilità: i pestaggi degli inermi, le molotov portate alla Diaz non dai black bloc ma dai poliziotti, le raggelanti testimonianze di Bolzaneto…
Le cronache degli anni successivi, dalle rivolte nelle banlieue al Bataclan, ci dicono che “le vere emergenze sono ben altre”, riprende Zucca. “Le forze di polizia non hanno saputo gestire l’ordine pubblico senza violare i diritti”. E se hanno perso il controllo in una perquisizione come quella della Diaz, la notte del 21 luglio, in almeno 300 ben corazzati contro poco più di 100 inermi, con gli scontri cessati da ore e i Grandi della Terra al sicuro nelle loro dimore, “chissà come si comporterebbero in situazioni peggiori”, osserva l’ex pm, in magistratura dal 1985, oggi sostituto procuratore generale, sempre a Genova.
È stato un processo teso, quello della Diaz, permeato dalla netta ostilità della polizia e da una totale mancanza di collaborazione con i pm Zucca e Francesco Cardona Albini nell’identificazione dei singoli responsabili dei pestaggi più cruenti. Persino i responsabili del tentato omicidio del mediattivista inglese Mark Covell, ridotto in codice rosso davanti alla Diaz, senza alcuno scontro in atto e ancora prima che scattasse il blitz nella scuola utilizzata come dormitorio dai manifestanti, sono stati coperti fino alla fine, e restano ignoti. La perquisizione, scattata intorno a mezzanotte con l’intento dichiarato di espugnare il covo dei violenti black bloc, si concluse con 93 arrestati, di cui 61 feriti. Due su tre. A tutti indistintamente, per il solo fatto di dormire in quella scuola, fu appioppata l’accusa di devastazione e saccheggio, uno scherzo da 8 a 15 anni di carcere (furono tutti prosciolti, nonostante il carico della falsa prova delle molotov).
La processione di barelle immortalata dalle tv internazionali e le pozzanghere di sangue sul pavimento della scuola (un liceo intitolato in realtà non a Diaz ma a Sandro Pertini) furono presentati come segni di “ferite pregresse”.
Alla fine, però, sono arrivate le condanne definitive per pezzi grossi dell’antimafia e dell’antiterrorismo. Tra cui Franco Gratteri, Gilberto Caldarozzi, Giovanni Luperi, e l’ex comandante del Reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini.
Il G8 di Genova non fu solo un problema di manganelli. Come conferma la sentenza definitiva, “violazioni sistematiche e arresti illegali furono coperti con falsità, con carte truccate, fino al livello massimo”, ricorda Zucca. “Del processo Diaz mi ha colpito l’assoluta compattezza e omertà della polizia. Non ci sono stati casi di dissociazione. Lo hanno fatto persino gli agenti della Cia sotto Bush, sulla tortura, e i procuratori militari sugli interrogatori di Guantanamo. Si può dire ‘no’ anche in contesti più difficili del G8”. Quella notte si innescò un circuito infernale: gli arrestati della Diaz finirono a Bolzaneto, dove già dal primo pomeriggio del 20 luglio i fermati negli scontri subivano abusi, umiliazioni e insulti(“zecche”, “Viva Pinochet”, “troie comuniste”…) di cui il mondo, in quel momento, nulla sapeva.
Nella caserma di polizia convertita in ufficio matricola non c’era neppure la scusa dell’ordine pubblico (l’edificio non fu mai coinvolto in incidenti o rivolte) o di una convulsa perquisizione. I pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati parlarono di “trattamenti inumani e degradanti” e sottolinearono la mancanza di una legge contro la tortura.
Il G8 di Genova ci rimanda a immagini di un’altra era. Berlusconi garrulo fra i Grandi, Fini con i Rayban scuri e la “solidarietà preventiva” di An alle forze dell’ordine, un variegato movimento antiliberista grado di mobilitare centinaia di migliaia di persone in mezzo mondo. E don Andrea Gallo, che fino all’ultimo pretenderà le scuse – mai arrivate – di Fini, del capo della polizia De Gennaro, del ministro dell’interno Scajola. E un processo per la morte di Carlo Giuliani. Ma quindici anni dopo il G8 di Genova non è finito, neppure con le ultime sentenze di Cassazione. “C’è un fenomeno di rimozione, invece occorrerebbe una presa di coscienza”, commenta Zucca. “Nella polizia la riflessione non è stata fatta. È stato detto ‘voltiamo pagina’, ma non si può voltare pagina se non si è capito quello che è successo”. Non è solo la polizia. “Stampa, politica, opinionisti non accettano i fatti, riscrivono la storia, evocano misteri”.
Intanto la legge contro la tortura quindici anni dopo è sempre lì, in Parlamento, come ai tempi di Bolzaneto. E la magistratura? “Si fa sentire sulle riforme costituzionali ma non su un tema così strettamente giudiziario. È in conflitto d’interesse con le forze dell’ordine”. Quali siano i nodi ancora irrisolti del G8 lo spiega “la Corte europea dei diritti dell’Uomo, che continua a sanzionarci per violazione dell’articolo 3 (‘Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti’, ndr) e scrive che il nostro ordinamento non è in grado di sanzionare gli abusi di chi indossa una divisa”.
Mentre il governo “non ha mai soddisfatto la richiesta di inviare l’elenco delle sanzioni disciplinari inflitte ad agenti e funzionari condannati”. Viviamo in tempi dominati dall’ansia della sicurezza e dall’ossessione del terrorismo. Zucca si concede un ultimo sorriso amaro e mette a nudo un pensiero che deve averlo rincorso per tutti questi quindici lunghi anni: “Mettersi contro le forze dell’ordine è molto impopolare”.