Quasi un anno dopo l’apertura della cancelliera Merkel ai rifugiati siriani, il gesto più coraggioso e più lungimirante di un leader europeo nel XXI secolo, la Germania e l’Europa sono preda dell’angoscia da terrorismo. È la nemesi degli errori e delle esitazioni che hanno finora impedito all’Unione e ai singoli Paesi Ue d’affrontare i problemi intrecciati della virulenza jihadista tra Iraq e Siria (e dell’impatto anche fra i giovani musulmani qui da noi) e della spinta dei rifugiati verso l’Europa.
È un problema europeo più che americano, nonostante Trump ne faccia un tema della sua campagna, impegnandosi a chiudere le frontiere a chiunque venga da un Paese “coinvolto nel terrorismo” – cioè, anche a francesi e tedeschi –; ma è un problema comune a tutte le società aperte, democratiche, occidentali. Perché, come diceva il ministro dell’Interno tedesco De Maiziere, commentando l’aggressione d’un rifugiato afghano di 17 anni ai passeggeri di un treno, prima che arrivassero le notizie da Monaco, in una società libera e democratica non c’è sicurezza assoluta: la cosa, detta da un tedesco, per di più originario dell’Est, ha un peso forte perché nella sua storia, c’è l’esperienza di totalitarismi di segno diverso, ma che anteponevano entrambi la sicurezza alla libertà.
È un prezzo che l’Europa e l’Occidente non vogliono oggi pagare. Il che, però, non deve diventare un alibi: siamo liberi, quindi siamo esposti. Sono passati 18 mesi dal massacro di Charlie Hebdo, che ci colse impreparati – colpevolmente, perché quello era un obiettivo: la notte di fuoco a Parigi il 13 novembre, il marzo di sangue a Bruxelles, il tir del 14 luglio a Nizza, ora gli episodi tedeschi sono pure effetto di ritardi e lentezze nella risposta europea, a livello d’intelligence e di prevenzione, soprattutto su cooperazione e scambio d’informazioni. Un conto è rifiutare fermi il baratto tra libertà e sicurezza; un altro è consegnarci inermi ed esposti, per inefficienza, non per democrazia, a chi ci vuole colpire.