Come passa il tempo, sono volati i primi quattro anni della presidenza di Donald Trump, arrivato alla Casa Bianca nel novembre 2016. “L’Americanismo, non il globalismo è il nostro credo”, aveva detto Trump nell’ormai lontana convention del Partito repubblicano che il 20 luglio 2016 lo ha scelto ufficialmente come candidato. La sua sfidante, Hillary Clinton, ha fatto il possibile, ma non ha retto l’assalto di Trump: tutta la campagna verso la Casa Bianca è stata scandita da slogan come quelli sentiti a Cleveland (“ingabbiatela”). Poi sono arrivati i dibattiti televisivi: “The Donald” ha cominciato ricordando quando Bank of America pagò 454.000 dollari a Hillary per un discorso, ha continuato citando l’inchiesta del Financial Times sui 22 milioni di dollari che, insieme al marito Bill, ha accumulato lavorando per l’università privata Laureate, una di quelle istituzioni che spingono gli studenti a indebitarsi per migliaia di dollari e che Hillary ora promette di combattere. Poi è arrivata la battuta irripetibile stagista di Bill, Monica Lewinski, e la reazione di Hillary l’ha condannata come il sudore sul labbro di Richard Nixon nello scontro tv con John Kennedy nel 1960.
I Democratici sono riusciti almeno a conquistare la maggioranza sia alla Camera che al Senato nel 2016, per due anni i Repubblicani hanno avuto il tempo di riorganizzarsi e già nel 2018 hanno recuperato qualche seggio. I moderati come l’ex speaker del Congresso Paul Ryan si sono eclissati, ormai il modello di riferimento è Chris Christie, già governatore del New Jersey, già ribattezzato dai giornali “Trump 2.0”.
Dopo aver lasciato la Casa Bianca, l’ex presidente Barack Obama è tornato a Chicago, per seguire la costruzione della sua biblioteca presidenziale. Per rispetto istituzionale, ha evitato a lungo ogni intervento pubblico. E intanto la violenza nelle strade è cresciuta. Anche da presidente, Trump ha confermato l’approccio della campagna elettorale: non ha mai voluto essere il presidente di tutti, ma di quella minoranza bianca che si sente minacciata dal cambiamento demografico che vede ormai i latinos maggioranza e dalla globalizzazione.
Quando Trump, ripetendo il suo slogan di “legge e ordine”, ha iniziato a schierarsi apertamente dalla parte dei poliziotti che, sempre più spesso, uccidono ragazzi neri senza subirne poi le conseguenze, è iniziata una processione verso Chicago. Obama, i cui capelli imbiancano sempre più in fretta, è diventato la coscienza di un Paese diviso, l’ultimo simbolo di speranza, molti invocano un terzo mandato, si parla di una modifica del ventiduesimo emendamento approvato nel 1951.
“Make America Great Again”, aveva promesso Trump. Ma l’America nel mondo non è tornata grande, anche se i danni del presidente repubblicano sono stati inferiori a quelli che i suoi detrattori temevano. In Francia, nel 2017, François Hollande è riuscito a ottenere un’improbabile vittoria al secondo turno contro il Front National proprio grazie agli elettori moderati spaventati da quello che i sondaggisti hanno definito “effetto Trump”.
La coerenza non è mai stata tra le virtù di Trump: gli Stati Uniti non hanno mai costruito davvero un muro con il Messico, la Casa Bianca si è limitata a promuovere una maggiore cooperazione tra i due Paesi nella lotta all’immigrazione clandestina, con un aumento del personale Usa lungo la frontiera, “un muro di veri americani vale più di un muro di mattoni”. Visto che rinegoziare il Nafta, trattato commerciale con Messico e Canada degli anni Novanta, era troppo complicato, Trump ha scaricato le ansie da globalizzazione dei suoi sostenitori sul Tpp, il trattato anti-Cina voluto da Obama con Giappone, Vietnam e altri Paesi asiatici. Dopo che anche i Democratici lo avevano attaccato, quando Hillary voleva fare concorrenza al “socialista” Bernie Sanders, il Congresso lo ha affondato. Trump non è mai stato ostile al Ttip, il trattato analogo con l’Europa, ma tra Berlino, Bruxelles e Parigi governi e Commissione Ue continuano a rinviarne la firma per paura di far vincere i populisti che lo denunciano come la resa alle multinazionali Usa.
Nella campagna 2020 ci sarà però poca Europa e molta Russia. Trump e Vladimir Putin si sono sempre piaciuti, ma devono comportarsi da nemici. Il presidente russo continua da anni ad applicare il “modello Ucraina”, guerre a a bassa intensità in tutta la sua zona di influenza per arginare la perdita di consenso interna. E Trump non è mai riuscito a trovare una visione di politica estera autonoma, quindi replica quella del suo modello, Ronald Reagan. L’unico vero successo di Trump in politica estera è proprio un ritorno alla guerra fredda: a forza di ripetere la minaccia di abbandonare al proprio destino tutti i Paesi membri della Nato che non rispettano il contributo pari al 2 per cento del Pil, da quando c’è Trump alla Casa Bianca la spesa per la difesa in Europa è tornata a crescere. Soldi che però non bastano a controllare il Medio Oriente.
I liberal americani, tornati ad abbonarsi in massa al New York Times, sono rassegnati, ma sperano che almeno Trump eviti l’ultima tentazione: dichiarare guerra all’Iran, accusandolo di non rispettare l’accordo sul nucleare. Ha evocato il conflitto molte volte. E niente come l’inizio di una guerra assicura la rielezione.