Non ho dati certi, ma sono convinto che quella del Pd sia l’unica minoranza di partito al mondo che fa di tutto per non diventare maggioranza. Esprimono piccole riserve sull’operato del Capo, ma si guardano bene dall’affrontarlo. Non sono né amici fedeli, né nemici aperti e in tal modo perdono sempre più potere all’interno e reputazione all’esterno. La loro strategia sembra essere quella del “sì, ma!”. L’esempio più eloquente è la decisione di Bersani di votare in aula la riforma costituzionale – pur giudicandola pericolosa per l’equilibrio istituzionale della Repubblica – in nome della lealtà al partito definito pudicamente “ditta”. Non insisto sul fatto che una simile posizione mette il partito al di sopra della Costituzione e dimostra dunque una ben povera coscienza istituzionale. Sottolineo piuttosto che questo “sì, ma” non ha affatto rallentato la marcia trionfale di Renzi e dei suoi verso la devastazione della Costituzione e, di sicuro, non ha indebolito il suo potere nel Pd.
Analogo discorso vale per le più recenti prese di posizione di Bersani: “Abbiamo votato sì alle riforme e votiamo sì al referendum, purché non venga fuori un sì cosmico contro un no cosmico” (Il Fatto, 2 maggio 2016). Quale sia la differenza fra un “sì” semplice e un “sì” cosmico, Bersani non dice.
Resta il fatto che in autunno non dovremo scegliere fra un “sì”, un “sì cosmico” e un “no”, ma fra un “sì” e un “no”. Ma non sottilizziamo. Il punto vero è, al solito, che con trovate di questo tipo, Renzi si rafforza e la minoranza si copre di ridicolo. Ma c’è di peggio: “Io quella riforma l’ho approvata – ci assicura Bersani – con dei problemi e delle richieste di modifica. Un passo avanti e gradirei poter votare sì al referendum: basta che non mi cambino le carte in tavola. Sento dire che la madre di tutte le battaglie è tra sì e no (…). A me su una strada di un plebiscito a due passi dal delirio non mi portano, si devono fermare prima” (L’Espresso, 3 maggio).
Renzi ha portato tutti a un passo dal delirio plebiscitario, ma Bersani e i suoi non sono ancora passati dalla parte del ‘no’. Anche di fronte a un Renzi indebolito dalle sberle prese alle Amministrative, la minoranza continua con l’opposizione timida. Alla direzione Pd del 4 luglio, Roberto Speranza ha infatti presentato un ordine del giorno che impegnava il partito a “offrire piena cittadinanza anche a chi sostiene le ragioni del no”. Più che un atto di coraggiosa lotta politica si è trattato di una patetica richiesta al Capo di aver pietà di chi non la pensa come lui.
Com’era ovvio, Renzi e i suoi hanno risposto a pernacchie. Dovrebbero ormai aver capito che Renzi vuole un partito di servi da comandare con la promessa di nuove e più fulgide vittorie (con allegati benefici) e la minaccia di mandare tutti a casa. E invece, la povera minoranza continua con la politica della mezza opposizione. Del tutto comprensibile che anche agli occhi di autorevoli dirigenti maggioranza e minoranza appaiono poco distinguibili. “Hanno la stessa logica di chi è al potere. Con gli stessi errori. Vogliono cambiare il personale, non la struttura. Non sono interessato”, ha dichiarato Fabrizio Barca su questo giornale (18 luglio). Anche i più severi oppositori non si rendono tuttavia conto che una delle regole fondamentali della politica è saper cogliere le occasioni. La grande occasione per la minoranza Pd è il referendum costituzionale. Se si schierassero apertamente per il “no”, potrebbero, in caso di vittoria, riprendersi il partito e, in caso di sconfitta, dimostrare di saper condurre una lotta politica ispirata da seri ideali e guadagnare reputazione per nuove battaglie.
Niente di tutto questo. Incalzato dall’intervistatore sul referendum, Barca ha risposto: “Sto cercando di valutare in modo certosino tutte le parti della riforma. Non voglio affrettare il mio giudizio. Deciderò entro settembre”. Pochi giorni dopo Miguel Gotor è stato ancora più sfuggente “è sbagliato e miope che la maggioranza del Pd schiaffeggi centinaia di migliaia di nostri iscritti ed elettori – il 20% – orientati a votare ‘no’. Sarebbe intelligente rappresentare anche la loro posizione, invece di cacciarli”. Sembra di ascoltare la celebre frase nel film Johnny Stecchino che la vera piaga della Sicilia è il traffico.
Di fronte a tanta insipienza politica merita grande rispetto la scelta di quanti, come Giuseppe Civati, hanno deciso di uscire dal partito per costruire una nuova forza di sinistra. Altrettanto rispetto merita la scelta di Massimo D’Alema di dichiarare esplicitamente che il suo voto sarà un bel “no” e di impegnarsi nei comitati. Forse si è reso conto che far vincere il “no” è la sua vera occasione per essere ricordato come un grande politico. Sarebbe bello che lo capissero anche i militanti e gli elettori del Pd. Se vince il “no” il Pd rinasce; se vince il “sì” diventa il partito personale di Renzi o un fetido partito della nazione con Verdini e altri figuri della medesima risma.